Google esiste dal 1998 e nei suoi quasi vent’anni di vita ha offerto uno spettacolo evolutivo impressionante. Da motore di ricerca a organismo base per chi si connette al web, un terreno su cui Facebook negli ultimi tempi affronta l’azienda di Mountain View a viso aperto. E’ diventato una fonte di reddito per inserzionisti, blogger e Youtuber, ha cercato e ancora cerca una sua via alla rete social, e ha conquistato l’82,8% del mercato dei dispositivi mobili con Android, all’inizio un’attività collaterale e oggi anima digitale di miliardi di smartphone e tablet venduti in tutto il mondo e prodotti da Huawei, Htc, Samsung, LG, Asus, Sony, Acer, Lenovo e innumerevoli altre aziende orientali. Un dominio globale che sembra l’aggiornamento contemporaneo della storia di Microsoft, l’azienda di Bill Gates che tra gli anni 80 e i 90 conquistò il mondo con Windows, il sistema operativo per Pc che dalla versione 1.0 del 1985 fino alla 10 del 2015, è il più diffuso ambiente operativo del mondo.Le analogie tra Google e Microsoft non mancano, dall’espansione rapida fino a sovrastare la concorrenza fino al tipologia di prodotti e idee. Le due aziende sono diverse, Google naturalmente sperimenta su più fronti perché la sua natura è quella. I
robot di Boston Dynamics per esempio, le rampe spaziali di Google X o
l’auto che si guida da sé, gli
smartphone componibili di Project Ara e innumerevoli altri progetti segreti a cui si lavora nelle stanze più recondite del Googleplex. Ma Google è finita nel mirino della Ue con la stessa accusa che venne rivolta a Microsoft, abuso di posizione dominante. Come all’azienda di Gates furono
comminate sanzioni a metà degli anni 2000 per non aver aderito alle regole dell’Antitrust, così Big G oggi è nell’occhio del ciclone per come è impostato Android nel momento in cui raggiunge la stragrande maggioranza del mercato. E così come Microsoft ha risolto i contenziosi con l’Europa, così Google dovrà trovare la quadra per non infrangere le direttive dell’Autorità. Che nel caso di Android, toccano la funzionalità stessa del sistema operativo così come pensato nella
Google experience, ovvero una piattaforma che fornisce all’utente, appena comprato un nuovo smartphone o tablet, di entrare nel mondo dei servizi Google utilizzando il suo account. “La cosa giusta”, insomma, secondo il nuovo motto di Mountain View. “Don’t be evil” in fondo è una frase che nel 2004 aveva più peso. Ma sotto i ponti di acqua ne è passata, e la vita digitale di oggi è infinitamente più complessa e strutturata rispetto a quella di appena dodici anni fa. E dall’ottobre 2008 in cui venne messo sul mercato il primo smartphone Android, l’HTC Dream, il modo in cui usiamo telefoni e tablet è cambiato, e non solo: ha cambiato noi. Un cambiamento che si riflette anche nell’assetto corporativo di Mountain View: oggi Google infatti è solo una delle tante aziende sotto il cappello della holding Alphabet. Nel passaggio di Google ad Alphabet però, come
si legge nel codice etico, il “Non essere cattivo” è sparito, sostituito da una direttiva diversa e molto più interpretabile: “Fa’ la cosa giusta”. Una frase che richiama curiosamente ancora un film, stavolta di Spike Lee, ancora una storia di ultimi sotto il peso del potere e dei soldi.
La svolta. L’impostazione operativa alla base dello scontro Google-Ue risale a qualche anno fa. Il 24 gennaio 2012 Google aggiorna i termini di servizio relativi a tutti i prodotti: i dati e le informazioni di un utente possono da quel giorno essere utilizzati da qualunque servizio dell’ecosistema Google. Da parte dell’esperienza d’uso, per l’utente accade che i servizi Google ora si basano su un profilo unico per le varie applicazioni, da GMail a Youtube alle Mappe, a quelle abbandonate nel tempo (Google Buzz, Picasa, ecc.) e ovviamente dal lato Google un ritratto molto ben definito di ogni singolo user. In soldoni, una miniera d’oro per la profilazione, su cui mirare al millimetro pubblicità e offerte. Big G insomma continua a tracciare il percorso dell’identità digitale utilizzando l’asset chiave della raccolta dati e del motore di ricerca, quello con cui hanno rivoluzionato la Rete e portato nel nuovo millennio la vita di miliardi di persone. Non sono mancate le polemiche sulla svolta: Google metteva prima l’utente e poi il profitto, si è scritto in Rete. Ed è qui che per molti il “Non essere cattivo” è andato in fumo. Ma in realtà, in un pianeta in cui la parola privacy appare ormai un vezzo vintage, la mossa di Google si contestualizza facilmente.
Nelle interviste rilasciate negli scorsi anni, il presidente di Google Eric Schmidt indicava il limite del “non essere cattivi” al punto in cui le attività di Google potevano suscitare inquietudini e paura. Ma nel mondo di oggi, in cui semplicemente tenere uno smartphone in tasca può rivelare un’infinità di dati al sistema operativo che lo anima, anche senza mai toccare lo schermo, un motto del 2004 rischia di dover essere ridefinito ogni 24 ore. Il motore di ricerca di Mountain View è diventato un moloch capace di assimilare ed elaborare tutti i dati del mondo, così come Microsoft all’apice di Windows era sostanzialmente il sinonimo del mercato dell’informatica di massa. Ma quella di Google è per l’appunto un’evoluzione che ha trasformato la società, che adesso si rapporta a un contesto di esistenza digitale che pochi anni fa era uno scenario e oggi la realtà. Microsoft ha risposto alle accuse Ue modificando i prodotti e, sul lungo periodo, incorporando l’universo digitale esterno che intanto cresceva. Google sembra essere sulla stessa isola che un tempo fu di Gates, in posizione unica, invidiabile e però troppo isolata dal mondo. Se Big G sarà costretta a spacchettare Android in un sistema operativo “core” con servizi accessori o ad offrire dei “ballot box” come quelli che Microsoft inserì in Windows al tempo della guerra dei browser, lo vedremo. Certo è che quello che accadrà non potrà essere una decisione unilaterale ma sarà inevitabilmente una sintesi tra il vento dei mercati, le idee delle imprese e le decisioni della politica.
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