Ci libereremo del coronavirus? Una risposta c’è già stata. Scoprire perché alcuni virus fanno perdere le loro tracce mentre altri ci perseguitano da secoli ci aiuterebbe a comprendere meglio la pandemia in corso. Con oltre 31 milioni di casi positivi rilevati in tutto il mondo e centinaia di migliaia di nuove infezioni ogni giorno, molti epidemiologi e virologi ritengono che il coronavirus continuerà a farci compagnia per molto tempo, diventando una presenza costante come molti altri virus, che abbiamo imparato a conoscere e a tenere sotto controllo. È infatti raro che un virus scompaia completamente e si estingua, ma questo non deve scoraggiarci più di tanto, spiegano ricercatori ed esperti che da decenni studiano il modo in cui si affermano nuove malattie, spesso con una grande virulenza iniziale, per poi diventare meno rischiose o diffuse.
Dov’è finita la SARS
Tra i virus a essere all’apparenza scomparsi c’è quello che causa la SARS, una malattia respiratoria simile alla COVID-19 e sempre causata da un coronavirus, che ha diverse cose in comune con quello attuale (SARS-CoV-2). La SARS divenne ufficialmente nota nel febbraio del 2003, quando fu descritta per la prima volta come una “insolita malattia contagiosa” che in poco più di una settimana aveva causato la morte di almeno 100 persone, in Cina e altre parti dell’Asia.
Anche se con qualche ritardo a causa della tardiva segnalazione, furono condotte indagini risalendo alla provincia costiera cinese del Guangdong, dove si erano verificati i casi iniziali. Il primo, da animale a essere umano, fu ricondotto ai mercati di animali vivi ed esotici all’epoca ancora molto popolari in Cina (lo sono tutt’oggi, ma in seguito alla pandemia il governo cinese ha stabilito regole più severe per la loro organizzazione). Una civetta delle palme (un cugino degli zibetti, per intenderci), ritenuta una prelibatezza nella cucina della zona, aveva contratto il coronavirus da un pipistrello e lo aveva poi trasmesso a un essere umano, che a sua volta avrebbe poi infettato altre persone.
Nei due anni seguenti furono rilevati poco più di 8mila casi positivi alla SARS, e fu accertata la morte di oltre 770 persone a causa della malattia. Oggi è opinione diffusa che le cose sarebbero potute andare molto peggio, considerate sia le caratteristiche del coronavirus che la causa. Proprio come l’attuale, quel virus poteva diffondersi attraverso le goccioline di saliva (droplet) che emettiamo tossendo, starnutendo e parlando a voce alta (talvolta anche respirando), quindi con le potenzialità per diventare molto diffuso.
Le cose, però, andarono diversamente rispetto a come sono andate quest’anno. Già all’inizio del 2004 i casi rilevati erano pochissimi e alla fine di gennaio fu registrato l’ultimo focolaio noto e rilevante della malattia. Ma che cosa fece sì che una malattia potenzialmente in grado di produrre enormi danni alla nostra salute e alle nostre società divenisse irrilevante?
Come hanno spiegato diversi esperti a BBC Future, potremmo dire che fummo molto fortunati. La spiegazione più elaborata è che ci fu una combinazione di fattori a nostro favore: da un lato la capacità di tracciare molto velocemente e con accuratezza i nuovi contagi, dall’altro il modo in cui si comportò quel tipo di coronavirus.
SARS vs COVID-19
Chi contraeva il virus e sviluppava la SARS tendeva ad avere quasi sempre sintomi molto evidenti e seri. Il tasso di letalità della malattia era molto alto, al punto da causare la morte di un paziente con sintomi su cinque. Questa circostanza rendeva molto più semplice l’identificazione degli individui infetti e il loro isolamento rispetto all’attuale coronavirus, che in moltissimi casi non causa sintomi o ne determina di molto lievi, con la conseguenza che chi è infetto e contagioso tende a mantenere una vita sociale attiva e a contagiare inconsapevolmente altre persone.
Dopo avere contratto il coronavirus della SARS si diventava inoltre contagiosi dopo un arco di tempo più lungo rispetto a quanto avviene con la COVID-19, e questo consentiva a chi si occupava del tracciamento dei contatti di avere più tempo per trovare i positivi e isolarli, prima che diventassero contagiosi.
Un caso
Il caso di Liu Jianlun può aiutare a farsi un’idea di che cosa sarebbe potuto accadere, se le cose fossero andate diversamente. Jianlun era un medico specializzato in malattie respiratorie e aveva contratto il coronavirus della SARS dopo avere trattato un paziente in un ospedale nella provincia del Guangdong; era la fine di febbraio del 2003 e il virus non era ancora molto noto. Per partecipare a un matrimonio, Jianlun raggiunse Hong Kong, dove aveva prenotato una stanza d’albergo al nono piano del Metropole Hotel. Benché accusasse da circa cinque giorni spossatezza e qualche linea di febbre, si sentì abbastanza in forma per visitare la città con un parente.
Il giorno dopo i sintomi erano peggiorati e Jianlun si recò in ospedale, chiedendo al personale di metterlo quanto prima in isolamento. A quel punto, secondo le successive indagini e ricostruzioni dei contagi, aveva ormai causato il contagio di 23 persone, compresi alcuni clienti dell’albergo provenienti da Canada, Singapore e Vietnam, che avrebbero poi inconsapevolmente portato il virus nei loro paesi di origine. Jianlun sarebbe poi morto.
Anche se non ci sono dati definitivi, con una buona approssimazione i ricercatori hanno calcolato che circa 4mila casi di SARS siano derivati da Jianlun. Se non ci si fosse mossi per tracciare i contatti, contenendo le nuove infezioni, e se il coronavirus avesse avuto caratteristiche simili a quelle del virus attuale, la SARS si sarebbe potuta diffondere in tutto il pianeta causando enormi danni.
Estinzione?
La SARS è sparita anche per un altro motivo: per quanto ne sappiamo, non si è diffusa ulteriormente in altri animali. Le stesse civette delle palme sono minimamente esposte al rischio di contagio: probabilmente quella che trasmise il virus a uno dei frequentatori del mercato era un caso piuttosto isolato. Questo naturalmente non implica che il virus sia completamente sparito o che si possa dire con certezza che si sia estinto. La scomparsa definitiva di un virus che ci causa gravi problemi sarebbe auspicabile, ma difficile da realizzare. Ci sono comunque soluzioni per tenere un virus sotto controllo, al punto da non renderlo più una minaccia.
Come ha spiegato Ian Lipkin, rispettato epidemiologo della Columbia University (New York) diventato noto al grande pubblico proprio in questi mesi di pandemia, “il termine ‘estinto’ è probabilmente fuorviante. Possono esserci virus ovunque: possono nascondersi nelle persone, sui materiali conservati nei congelatori, nelle specie selvatiche e in quelle domestiche; è davvero impossibile dire se un virus si sia estinto”.
Fare estinguere una malattia
Un buon esempio può essere il vaiolo, malattia che ha accompagnato la nostra storia per almeno tre millenni e che solo nel XX secolo ha causato la morte di centinaia di milioni di persone (le stime variano sensibilmente). Grazie allo sviluppo di un vaccino e al suo massiccio impiego tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Settanta, nel 1979 la malattia fu dichiarata eradicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il vaiolo è stata la prima e unica malattia che interessa gli umani a essere totalmente eradicata (ci siamo anche riusciti con la peste bovina una decina di anni fa).
L’ultimo caso di contagio in natura risale al 1977, anche se l’anno seguente ci furono alcuni casi a causa di un incidente in un laboratorio britannico. Il virus per quanto ne sappiamo non è più in circolazione, ma sue copie sono conservate in due laboratori (uno negli Stati Uniti e uno in Russia). Da anni c’è un acceso dibattito su che cosa farne: c’è chi le vorrebbe distruggere, per evitare ogni rischio (perdite o furti), e chi pensa che siano preziose per eventuali future attività di ricerca. L’OMS ha linee guida e piani da seguire sia per il rischio di nuovi contagi, sia su come affrontare una nuova epidemia, per quanto improbabile.
Scomparse e riapparizioni
La scomparsa del vaiolo è avvenuta grazie a uno sforzo globale senza precedenti, ma ci sono malattie causate da virus che spariscono da soli, per poi ricomparire in altre circostanze. È il caso dei virus che causano l’Ebola, una malattia molto pericolosa e dall’alta letalità che storicamente ha interessato diversi paesi africani. Dalla scoperta della malattia a metà degli anni Settanta, ci sono state almeno 26 distinte epidemie di Ebola: tutte iniziate e finite. Molte caratteristiche delle modalità di contagio sfuggono ancora ai ricercatori, ma è ormai chiaro che le epidemie iniziano quando il virus riesce a passare da un animale (pipistrelli, o alcuni primati) agli esseri umani, che poi si contagiano tra loro.
I virus che causano l’Ebola comportano in media la morte di un malato su due, e questo concorre alla durata relativamente breve delle epidemie e al loro essere molto localizzate (il virus non riesce a circolare più di tanto). Non sono state riscontrate prove concrete sul fatto che gli ebolavirus restino nella popolazione, di conseguenza è probabile che le epidemie siano innescate da nuovi passaggi da animali a esseri umani.
Come è stato rilevato di recente nella Repubblica Democratica del Congo, può anche accadere che due distinte epidemie si sovrappongano (una inizia mentre ne sta finendo un’altra), dando l’impressione che siano collegate, anche se in realtà ciascuna è dipesa da un passaggio diverso da animali a esseri umani. Tale circostanza è verificabile analizzando le caratteristiche dei virus responsabili delle varie epidemie, differenti tra loro. Anche per questo motivo l’Ebola non è costantemente presente ed è così sfuggente.
Per sbarazzarsi definitivamente dell’Ebola sarebbe necessario distruggere i virus che la causano, eliminando la loro presenza dagli animali selvatici in cui si rintanano. Con le attuali risorse e conoscenze sarebbe impossibile riuscirci, così come è stato per ora impossibile sviluppare un vaccino non solo efficace a sufficienza, ma anche in grado di contrastare le diverse varianti di virus che causano la malattia.
Raffreddore
Il coronavirus dell’attuale pandemia è sicuramente meno letale rispetto a quelli che causano l’Ebola, ma ha una capacità molto più marcata di diffondersi tra la popolazione. In un certo senso, in questi mesi siamo diventati noi la sua riserva naturale, nella quale può replicarsi e prosperare. Non è del resto la prima volta che succede con i coronavirus: ce ne sono altri quattro tipi noti da tempo che causano quello che chiamiamo raffreddore comune (che può essere anche causato da altri virus).
I coronavirus del raffreddore sono così comuni e diffusi che probabilmente ciascuno di noi è entrato in contatto più volte con loro. In alcune circostanze possono causare epidemie da non trascurare, soprattutto tra gli anziani, ma nella maggior parte comportano sintomi lievi (per quanto fastidiosi), che si risolvono da soli dopo qualche giorno grazie all’intervento del nostro sistema immunitario.
Lo studio di questi coronavirus potrebbe aiutarci a capire qualcosa su quello attuale e sulla nostra convivenza forzata. Qualche anno fa, un gruppo di ricercatori della Katholieke Universiteit Leuven (Fiandre, Belgio) studiò le mutazioni nel coronavirus del raffreddore HCoV-OC43, ritenuto l’evoluzione di un virus che infetta il bestiame. L’analisi permise di collocare il passaggio dai bovini agli umani nella seconda metà dell’Ottocento, intorno al periodo in cui si diffuse una malattia respiratoria con alti tassi di mortalità nel bestiame, seguita da una pandemia (nel 1889) che causava febbre e diversi altri sintomi simili a quelli influenzali.
Studi svolti in precedenza su quella pandemia (spesso chiamata “influenza russa”) ritennero che la causa fosse un virus influenzale, ma senza portare prove definitive. Ancora oggi non sappiamo di preciso quale fosse la causa, ma non si può escludere che derivasse dal coronavirus OC43. Lo hanno ipotizzato sia i ricercatori nel Belgio, sia un nuovo studio realizzato quest’anno. Non tutti sono convinti di questa ipotesi, ma se fosse confermata offrirebbe un poco di ottimismo sulle prospettive dell’attuale pandemia. Indicherebbe che dopo una fase iniziale molto difficile, la COVID-19 potrebbe diventare meno letale mutando progressivamente fino a diventare paragonabile a un raffreddore comune.
Se così fosse, avremmo un nuovo virus che si afferma e poi rimane presente e diffuso nella popolazione, come quelli che causano una malattia con cui facciamo periodicamente i conti da molto tempo: l’influenza.
Influenza e coronavirus
Ci sono tre tipi di virus influenzali: Influenzavirus A, Influenzavirus B e Influenzavirus C; quelli più diffusi e che ci riguardano maggiormente sono i primi due. Il tipo A ci fa praticamente sempre compagnia ed è responsabile di quella che chiamiamo “influenza stagionale”; il tipo B infetta praticamente solo gli esseri umani e a differenza della A non porta a pandemie.
Ogni tipo di influenzavirus comprende poi diversi ceppi che si evolvono nel corso del tempo e poi spariscono. Non è sempre semplice tenere traccia di queste evoluzioni, ma in anni di studi i ricercatori hanno osservato andamenti tali da concludere che dopo qualche decennio si evolva un nuovo tipo di influenza, che rimpiazzerà quelli esistenti. Questi nuovi arrivati derivano di solito da una combinazione di vecchi virus influenzali e di nuovi virus, provenienti da altri animali.
I sottotipi di virus influenzali che scompaiono di solito accumulano mutazioni, che li rendono meno aggressivi o ne complicano la sopravvivenza. I motivi non sono ancora completamente chiari, ma alcuni ricercatori dicono che si potrebbero accelerare i processi di evoluzione dei virus che si sono adattati agli esseri umani, in modo da favorirne l’estinzione. In passato se ne era parlato per i virus del raffreddore e quelli influenzali, ma ultimamente sono stati valutati approcci simili anche contro il SARS-CoV-2.
Mutazioni
Come abbiamo ormai imparato, il materiale genetico dei coronavirus è costituito da RNA e non da DNA, una condizione comune anche a diversi altri virus come quelli influenzali, quello dell’HIV e gli ebolavirus. Semplificando molto, questo significa che quando iniettano il loro materiale genetico nelle cellule – per indurle a creare copie di loro stessi – non hanno sistemi per verificare la corretta trascrizione delle informazioni genetiche e quindi sono esposti a un maggior rischio di errori, che comportano poi le mutazioni (se utilizzassero il DNA ci sarebbero più passaggi intermedi per controllare le copie e ridurre il rischio di errori).
Le mutazioni per i virus sono un’arma a doppio taglio. Da un lato mutare di frequente consente ai virus di essere molto più sfuggenti, complicando quindi il lavoro del nostro sistema immunitario, ma anche di chi lavora per creare vaccini e farmaci per fermarli. Dall’altro, le continue mutazioni possono modificare alcune caratteristiche dei virus, fino a indebolirli e a portarli alla loro scomparsa. Per questo ci sono ricercatori che lavorano a farmaci che accelerino i processi di mutazione dei virus, in modo da ridurre la loro capacità di portare avanti l’infezione nei singoli pazienti. Le prime sperimentazioni con soluzioni di questo tipo hanno dato qualche risultato promettente.
In termini di varianti e mutazioni l’attuale coronavirus non è da meno e, a seconda delle aree geografiche, si è differenziato seppure mantenendo per ora caratteristiche simili e che non indicano particolari cambiamenti nella sua capacità di contagiare e causare infezioni. Uno studio ha però rilevato che in India il virus sta mutando velocemente e secondo i ricercatori queste variazioni potrebbero portarlo a indebolirsi sempre di più.
Dal modo in cui evolverà il coronavirus dipenderà anche l’evoluzione della pandemia. La sua diffusione potrebbe ridursi grazie all’introduzione di un vaccino, ma i tempi per produrne di efficaci e somministrarli a miliardi di persone saranno piuttosto lunghi, senza contare che a oggi non sappiamo ancora se il nostro organismo riesca a sviluppare una risposta immunitaria di lunga durata.
Diversi epidemiologi e virologi ritengono che il SARS-CoV-2 diventerà una costante delle nostre esistenze così come a un certo punto lo divenne l’influenza. Siamo riusciti a gestirla e ci sono presupposti e conoscenze per fare altrettanto con la COVID-19, recuperando un po’ di normalità.
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