Comunicare come comprensione dell’interiorità umana

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Educare medici e personale sanitario alla comunicazione. Comunicare non è solo trasmettere informazioni o essere collegati con qualcuno, ma anche manifestare un sentimento, un’emozione,  un moto dell’animo. E’ soprattutto, afferma il famoso psichiatra Eugenio Borgna nel suo libro “Parlarsi. La comunicazione perduta” (Einaudi), entrare in relazione con la “nostra interiorità” e con “quella di altri”. Secondo questa visione, comunicare come mostreremo in seguito diventa “sinonimo di cura”, poiché significa addentrarsi nelle sorgenti profonde dell’essere umano, condividendo sofferenza e tristezza, felicità e gioia, solitudine e speranze.

La conoscenza è cultura e la cultura – ripeteva spesso il premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini, che abbiamo avuto l’onore e il piacere di conoscere – è uno dei massimi valori dell’umanità. La vera conoscenza, per Goethe, è “l’uomo”.

La comprensione della condizione umana rientra nello studio della riflessione filosofica e letteraria, ma anche in quello della psichiatria, la quale non si esaurisce nella sua dimensione neurobiologica (naturalistica), ma affonda le sue radici nella teoria fenomenologica e antropologica.

Non esiste terapia psichiatrica, per Borgna, se non quando siamo in “comunicazione” con la sofferenza, il dolore del corpo e dell’anima del paziente, e riusciamo attraverso la capacità di “immedesimazione” a creare un “ponte” con la sua interiorità e con la sua angoscia. E’ un sistema di comunicazione che si realizza non solo con le parole, ma anche con i gesti, gli sguardi, i volti, i silenzi.

Come devono essere le parole? Queste vanno usate soltanto quando – scrive Hillesum –  “ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente”.

Non sempre psichiatri e psicoterapeuti hanno “antenne” sia per decifrare il senso oscuro, nascosto ed enigmatico del mondo interiore della vita sana  e della vita malata sia per evitare parole ambigue, indifferenti, vacue, glaciali, crudeli e anonime. Ci sono medici – precisa Borgna – che non hanno la percezione di come parole, gesti e forme di comunicazione possano ferire e umiliare il paziente. Così, ci sono parole che curano, danno speranza e serenità, e ci sono parole che feriscono, mortificano, offendono e lacerano l’anima.

Punto di partenza dunque è l’educazione alla comunicazione e all’ascolto. Si è capaci di ascolto quando riusciamo a metterci in “sintonia” con i pazienti e con le loro attese, con le loro necessità e le loro speranze. L’ascolto diventa l’aspetto centrale di ogni relazione, anche di quella terapeutica.

C’è il linguaggio delle parole, ma c’è anche il linguaggio misterioso dei silenzi. Solo nel silenzio – sostiene Guardini – “si attua la conoscenza autentica”, la conoscenza della vita interiore, ossia la comprensione della condizione umana lacerata dalle ansie, dal dolore e dall’angoscia. Insieme con l’ascolto, anche la solitudine è una esperienza interiore, che può aiutare a vivere meglio l’esistenza. Un’esistenza aperta ai valori autentici e alla partecipazione del destino degli altri.

Comunichiamo con il linguaggio delle parole, con il linguaggio del corpo, con il volto, fatto – scrive Ovidio – per riflettere “la luce delle stelle, e con le lacrime e il sorriso. Le lacrime e il sorriso ci comunicano un flusso di risonanze emozionali e di vissuti interiori, che le parole non dicono e non conoscono. Una lacrima, secondo Barthes, dice “assai di più” delle parole. Come non ricordare le lacrime versate da sant’Agostino alla morte della madre. “Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime”.

Oggi, la rivoluzione digitale produce informazioni torrenziali, inondazioni inarrestabili. Ma l’informazione non è la conoscenza, è un “ammasso” di dati. La cultura digitale – secondo autorevoli studiosi – ci presenta cose che “non esistono”. Il virtuale è quel che “non c’è”, è il non esistente”. E’ addirittura il “falso”. La conseguenza è che non distinguiamo più il “vero” dal “falso”, il “reale” dal “virtuale”.

Il medico sa comunicare? E come dovrebbe comunicare? La comunicazione del medico, ma così anche di tutto il personale sanitario, dal portantino al primario, è un principio fondamentale dell’azione  curativa. La sua comunicazione deve essere basata sugli stati d’animo del paziente e accompagnarsi a comportamenti di umanità, premura, disponibilità, gentilezza, discrezione, evitando atteggiamenti e atti che possano “ferire” la fragilità e la disperazione che la malattia “trascina con sé”. Una cattiva comunicazione crea un’altra sofferenza, quella che nasce dall’incapacità del medico a sintonizzarsi e identificarsi nella interiorità del paziente. Sono elementi essenziali il calore umano, la comprensione e la pazienza, la capacità di creare un clima di fiducia e di accoglienza e l’assoluto rispetto della dignità e della libertà della persona umana.

La sofferenza della psiche e dell’anima è mancanza di comunicazione, ossia di relazione, dialogo. E la cura non è se non la “disperata ricerca” di parole, di gesti e di testimonianza umana”. La comunicazione, dunque, è sinonimo di cura. Da ciò discende la massima esigenza di una adeguata formazione del medico e di tutto il personale, che a vario titolo viene in contatto con i pazienti. Eric Kandel, premio Nobel per la medicina e uno dei maggiori neuro scienziati, ha scritto che le parole inducono trasformazioni nel cervello e nella mente.

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