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Alzheimer, ancora troppo lunghi i tempi della diagnosi

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Alzheimer, ancora troppo lunghi i tempi della diagnosi
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I dati dell’ultimo Rapporto mondiale presentato alla vigilia della XIII Giornata dell’Alzheimer che si celebra in tutto il mondo evidenziano l’aumento dei casi di demenza. Per gli esperti la soluzione passa attraverso un maggior coinvolgimento dei medici di base. Secondo gli esperti per una diagnosi precoce è necessario un maggior coinvolgimento dei medici di base.

Il nuovo rapporto mondiale. Il ritardo con cui si arriva alla diagnosi rappresenta ancora il problema principale. Infatti, anche se oggi c’è maggiore consapevolezza che in passato, il tempo medio con cui si arriva a una diagnosi è ancora di quasi due anni, mentre spesso il trattamento precoce è la chiave per ritardare la progressione della malattia. Secondo i dati raccolti dal nuovo Rapporto mondiale, una delle principali barriere per una diagnosi precoce sta nel fatto che le cure sono affidate esclusivamente allo specialista.

Coinvolgere i medici di base. Un maggior coinvolgimento dei medici di base e in generale delle varie figure deputate alle cure (dall’infermiere al fisioterapista), invece, potrebbe far aumentare i casi diagnosticati ed inoltre potrebbe far diminuire il costo delle cure per ogni singolo paziente di oltre il 40%. “Il nuovo Rapporto sottolinea la necessità di ridisegnare e razionalizzare l’assistenza sanitaria per le demenze in modo da essere pronti per le sfide del 21° secolo”, spiega Martin Prince del King’s College London. “Abbiamo solo 10-15 anni per realizzare questo cambiamento creando una piattaforma che possa garantire a tutti una buona assistenza in anticipo rispetto a quando saranno disponibili nuove terapie efficaci”. Naturalmente anche l’accesso ai nuovi farmaci è fondamentale per garantire equità di cura ai 2/3 dei pazienti che vivono nei paesi in via di sviluppo. “Il rapporto invita a modificare drasticamente la modalità di assistenza sanitaria coinvolgendo maggiormente tutti gli attori dell’assistenza sanitaria facendo emergere così la necessità di considerare il malato come persona e garantirgli quindi una qualità di vita accettabile” commenta Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia.

Il progetto. “E’ lo stesso presupposto da cui siamo partiti noi per la realizzazione del progetto Dementia Friendly Community, cioè una Comunità che ha l’obiettivo di rendere partecipe tutta la popolazione, le istituzioni, le associazioni, le categorie professionali per creare una rete di cittadini consapevoli che sappiano come rapportarsi alla persona con demenza per farla sentire a proprio agio nella sua comunità”. Il Rapporto sottolinea anche che l’assistenza deve essere olistica ed integrata con un focus sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro caregivers prevedendo anche un monitoraggio dei risultati ottenuti. “Per la prima volta – prosegue Porro – si fa riferimento anche ad un approccio di tipo palliativo e mi sembra un’apertura importante visto che per l’Alzheimer non ci sono ancora purtroppo terapie disponibili e che si tratta di malattie croniche”.

La nuova check-list dei sintomi. Ad accorciare i tempi della diagnosi può essere anche l’intercettazione più rapida dei primi segnali che non si limitano solo ad un generico deficit cognitivo ma includono anche difficoltà nello svolgere azioni quotidiane, come vestirsi e lavarsi, o problemi psicologici e comportamentali, come depressione, incontinenza emotiva, agitazione, vagabondaggio. È quanto sostengono due recenti ricerche: una canadese presentata in occasione della Alzheimer’s Association International Conference 2016 di Toronto e l’altra svolta nell’ambito del progetto Ilsa (Italian Longitudinal Study on Aging) dall’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) e dall’Università di Firenze. Secondo i ricercatori dell’Università di Calgary, in Canada, tra i segni precoci della malattia di Alzheimer ce ne sono alcuni che riguardano il comportamento e non sono legati al decadimento cognitivo che in genere si tiene sotto controllo quando si sospetta la malattia.

I campanelli d’allarme. “Questi campanelli d’allarme a livello comportamentale potrebbero indicare che qualcosa non va a livello cerebrale” spiega Zahinoor Ismail, il ricercatore autore dello studio chiarendo che quando si parla di modifiche comportamentali non si intendono episodi isolati di ansia o depressione, ma modifiche che durano nel tempo. “La persona potrebbe per esempio diventare meno socievole, mostrare segni di depressione, ansia, diventare ossessiva. Insomma presentare modifiche rispetto a quello che è ed è stato nel tempo il suo comportamento abituale” continua l’autore. La ricerca è stata condotta su 282 persone e sostiene che l’82 per cento aveva almeno un sintomo comportamentale. Si tratta, comunque, di dati ancora preliminari che richiedono ulteriori approfondimenti.

I 5 sintomi. Per aiutare i medici a valutare questi segnali con attenzione, i ricercatori canadesi hanno anche preparato una check-list dei cinque sintomi cui prestare particolare attenzione: diminuzione della motivazione e perdita di interesse verso cose e persone; ansia o depressione; aspetti sociali; problemi nel controllo degli impulsi; difficoltà di percezione come allucinazioni. Anche secondo un recente studio condotto dalla Northwestern University e dall’Alzheimer’s Disease Center, a seconda della parte del cervello attaccata, in alcuni casi la malattia potrebbe manifestarsi con altri sintomi che dovrebbero suonare come campanelli d’allarme.

Lo studio italiano. Va nella stessa direzione lo studio condotto nell’ambito del progetto Ilsa (Italian Longitudinal Study on Aging), dall’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) e dall’Università di Firenze nel quale si è visto che nelle persone affette da deficit cognitivo lieve (Mci-Mild Cognitive Impairment), il manifestarsi di difficoltà nell’esecuzione delle attività quotidiane più complesse consente di predire lo sviluppo di demenza con un anticipo di otto anni. Lo studio è stato condotto su 2.400 ultrasessantacinquenni, rappresentativi della popolazione anziana in Italia, ed è stato pubblicato sul Journal of Alzheimer’s Disease. “La vita quotidiana presuppone lo svolgimento di attività elementari, quali lavarsi, vestirsi, alimentarsi, e di attività più complesse, definite strumentali, come usare il telefono, fare acquisti, preparare il cibo, effettuare le pulizie domestiche, utilizzare i mezzi di trasporto, maneggiare il denaro, assumere autonomamente eventuali terapie”, spiega Antonio Di Carlo dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr). “La ricerca ha dimostrato che avere problemi nelle seconde, le più complesse, permette di predire lo sviluppo di demenza in chi è affetto da Mci, e questo indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla presenza di altre malattie”. A fare la differenza è anche il cumulo delle attività che creano problemi. “Incontrare difficoltà in una sola delle attività complesse raddoppia il rischio di demenza, mentre se le attività interessate sono più di quattro il rischio aumenta di nove volte nei successivi otto anni” chiarisce il ricercatore dell’In-Cnr.

La necessità di una “rete”. Il peso dell’assistenza ai malati è tutto sulle spalle delle famiglie e delle donne, in particolare. E’ quanto emerge dai dati raccolti attraverso il primo progetto in Italia di “Comunità amica delle persone con demenza” realizzato dalla Federazione Alzheimer. Dai primi 100 questionari restituiti da 57 famiglie con persone con demenza abitanti di Abbiategrasso, città alle porte di Milano, risulta che il 90% dei caregiver sono donne, nel 68% dei casi la cura del malato è affidata alla famiglia, il 50% dei familiari sente l’esigenza di condividere la propria esperienza di vita con chi affronta ogni giorno la realtà accanto a un malato. Il paziente è principalmente assistito in casa da familiari (68%, contro i restanti che sono aiutati da badanti o ricoverati in strutture), dove il supporto è dato per il 60% dai figli (contro il 20% dei coniugi). Ansia e solitudine si confermano i sentimenti predominanti dei caregiver, che soffrono di un carico psicofisico presente e di un timore nel futuro non prevedibile. Anche per questo dichiarano di voler conservare – o recuperare – la normalità della vita quotidiana, svolgendo anche semplici occupazioni di vita quotidiana come fare passeggiate, incontrare amici, fare compere; un desiderio però in contrapposizione con quanto prospetta il decorso della malattia. Una necessità a cui risponde il progetto “Comunità amica delle persone con demenza” che parte da Abbiategrasso, alle porte di Milano.

Che cos’è l’Alzheimer. Alla base della malattia di Alzheimer c’è l’accumulo progressivo nel cervello di una proteina, la beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose e il loro collegamenti; questo processo può iniziare anche decenni prima delle manifestazioni cliniche della malattia e può essere tracciato attraverso la PET (Positron Emission Tomography), realizzata mediante la somministrazione di un tracciante che lega la beta-amiloide. Analogamente, è possibile analizzare i livelli di questa proteina nel liquido cerebrospinale, mediante una puntura lombare. “Oggi, queste tecniche permettono di stabilire un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer prima della comparsa dei deficit cognitivi e rendono quindi fattibile l’avvio di strategie preventive” dichiara Carlo Ferrarese, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano, dell’Università di Milano-Bicocca. “Queste strategie sono basate su molecole che determinano una riduzione della produzione di beta-amiloide, con farmaci che bloccano gli enzimi che la producono (beta-secretasi) o, in alternativa, anticorpi capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale. Questi anticorpi, prodotti in laboratorio e somministrati sottocute o endovena, sono in grado in parte di penetrare nel cervello e rimuovere la proteina, in parte di facilitare il passaggio della proteina dal cervello al sangue e la sua successiva eliminazione. Queste terapie sono attualmente in fase avanzata di sperimentazione e potrebbero modificare il decorso della malattia, prevenendone l’esordio”.

Quanto è diffuso. Sono 25 milioni le persone al mondo colpite dalla Malattia di Alzheimer. “In Italia le persone affette da questa patologia sono circa 700 mila e circa 150 mila i nuovi casi ogni anno; gli ultrasessantacinquenni affetti da deficit cognitivo lieve sono circa tre milioni: un anziano su quattro. Per loro il rischio di demenza è significativamente superiore rispetto agli anziani con funzioni cognitive normali”, spiega Di Carlo. E’ in aumento anche l’età media in cui si viene colpiti, pari oggi a 78,8 anni rispetto ai 77,8 anni del 2006. Ma esistono forme precoci che riguardano circa il 5% del totale dei casi.
Le iniziative. Tante le manifestazioni organizzate per questa giornata mondiale. La Federazione Alzheimer Italia , per esempio, presenta il primo progetto italiano di Dementia Friendly Community. Ad Abbiategrasso si sta organizzando un’intera comunità “amica” dei pazienti con l’obiettivo di far capire loro che non sono soli e cercare di includerli assieme alle famiglie in una società che ne accolga i bisogni. Le strategie alternative, come gli Alzheimer Café, i progetti di musicoterapia o di “gioco” con le bambole, le esperienze in teatro possono aiutare davvero e, infatti, in varie città d’Italia sono previste varie iniziative come visite ai musei organizzate per i pazienti, pet therapy, laboratori di pittura e l’uso dei suoni. Per sensibilizzare sulla malattia e sulla solitudine che accompagna i pazienti ma anche chi se ne prende cura, Infine Onlus ha lanciato la campagna social “Io prendo l’Alzheimer per mano”. Per partecipare basta scattare una foto a se stessi o a qualcosa che ci rappresenti con la scritta “io prendo l’Alzheimer per mano”. La foto va firmata e postata sui social con l’hashtag #alzheimerpermano2016.

12 Consigli per allenare la mente

Parte oggi e prosegue fino al 24 settembre la nona Settimana di Prevenzione dell’Invecchiamento mentale organizzata in tutta Italia da Assomensana con l’Alto Patrocinio del Ministero della Salute. Una settimana per sensibilizzare sull’importanza di prendersi cura anche del cervello che subisce le lusinghe del tempo. Ma a partire dai 50 anni bastano pochi esercizi per colmare le lacune e rafforzare la memoria prevenendo così il rischio di sviluppare qualche forma di demenza tra cui l’Alzheimer che colpisce circa 25 milioni di persone in tutto il mondo. Dall’uso dei social network, ai consigli alimentari, ai giochi con le parole, ecco come allenare tutti i giorni la mente.

1.    Al cervello non piace ‘l’orario continuato’
“Per allenare i neuroni è inutile sottrarre ore al sonno del mattino, o cercare di impegnarsi durante l’intervallo-pranzo o dopo cena” spiega Giuseppe Alfredo Iannoccari, neuropsicologo, docente a contratto all’Università Statale di Milano e Presidente di Assomensana. “Prima delle 9.00 i bioritmi fisiologici parlano chiaro: il cervello ha bisogno di tempo per carburare e ha bisogno della prima colazione per immagazzinare l’energia che serve all’attenzione, all’organizzazione delle informazioni e alla memorizzazione. Simile il discorso per l’intervallo-pranzo: qui il calo degli zuccheri si fa sentire. Bisogna fare una sosta priva di stimoli e introdurre nuovo carburante. Il cervello è in grado di rispondere alle sollecitazioni di nuovi esercizi mirati dopo le 15.00, ma ha di nuovo bisogno di riposo dopo le 19.00. Conclusione: gli intervalli temporali corretti per “allenare” la cognitività sono compresi tra le 9.00 e le 12.00 e tra le 15.00 e le 19.00”.
2.    Diventare social
#SOCIALmente non è la pubblicità di un nuovo sito web ma un consiglio che viene dagli esperti in neurologia. I social network, infatti, non sono solo per i ragazzi. Oggi gli anziani, gli over 65 hanno un’opportunità enorme: internet e i social. Imparare a mandare una mail, a navigare in internet, a scrivere un post su facebook è divertente e stimolante. E’ l’uso virtuoso di internet. E quando si è sicuri di facebook, passare a twitter e via così. Purché sia una nuova avventura.
3.    Allena il fisico, aiuta la mente
“Il potenziamento cognitivo e muscolare sono sempre a portata e si completano. Basta crederci e provare” afferma Giuseppe Alfredo Iannoccari, Presidente di Assomensana. “Fare jogging regolarmente per 30-45 minuti stimola del 10% circa la neurogenesi nell’ippocampo: grazie all’attività fisica, questo nucleo del cervello, centrale per la memoria, si arricchisce di cellule nuove di zecca. Ogni sport stimola competenze cognitive diverse”.
4.    Andare a caccia di parole
Per due giorni scrivere su un quaderno tutte le parole che iniziano con la A, il giorno dopo con la B e così via. Bastano dieci minuti. Poi rendere l’esercizio via via più difficile: per esempio, tutte le parole che iniziano con AL e finiscono con una vocale.
5.    Il gioco del 3
Apprendere una notizia positiva e piacevole e ripeterla a 3 persone differenti. La prima volta la racconteremo in modo più confuso. La seconda volta saremo più precisi. La terza potremo dire di averla memorizzata.
6.    Scacchi e dintorni
Scacchi, carte, sudoku: ad ognuno il suo. Gli scacchi sono in assoluto l’attività da preferire. Giocare a carte è un buon esercizio purché non sia sempre lo stesso gioco. L’enigmistica è un discorso a parte: fare le parole crociate è un buon esercizio ma richiede anche una preparazione culturale. Gli esercizi mentali devono poter essere fatti da tutti e affrontati con le proprie capacità mentali non con le proprie conoscenze.
7.    La tavola che fa bene anche al cervello
“Sul fronte alimentare, strettamente correlato al controllo del peso, la ricerca conferma: il cervello si mantiene in salute mangiando mediterraneo e, tutte le volte che si può, insieme ad altri” dice Iannoccari.  “La convivialità del consumo dei pasti è parte integrante della Dieta Mediterranea: agisce sul tono dell’umore, fa sì che si consumi il pasto mediterraneo con i tempi corretti per buona digestione e miglior senso di sazietà. Con la prima colazione corretta, consumata secondo le linee-guida si rifornisce il cervello di energia. Il messaggio sia: gli zuccheri vanno riservati al mattino”.
8.    Sovvertire le regole
Ci mettiamo sempre la crema con la mano destra? Per un po’ insegniamo alla sinistra a stenderla sul viso. Facciamo sempre la stessa strada? Cambiamo percorso. Cambiamo le regole, spezziamo la routine dei gesti. Il cervello dovrà venirci dietro ed apprendere nuove abitudini.
9.    Il rito della buonanotte
La sera, a letto, prima di prendere sonno ripensare alla giornata trascorsa. Non per fare un bilancio o darsi un voto. Ma per ripassare le cose fatte, le persone viste, anche nel dettaglio. Si ricostruisce la memoria a breve termine e si posizione nella casella della memoria a lungo termine.
10.    I campanelli d’allarme
“Tutti perdiamo colpi” spiega aggiunge Iannoccari “soprattutto se siamo stanchi o stressati. Una dimenticanza o una distrazione possono succedere. E dobbiamo farci una risata sopra o magari capire che è arrivato il momento di staccare un po’ la spina. Al contrario ci dobbiamo preoccupare quando questo avviene con una certa frequenza. Se una volta mentre guidiamo scopriamo di non sapere dove stiamo andando, ci sentiamo persi o smarriti (diverso da aver semplicemente sbagliato strada) possiamo anche far finta di nulla, ma la seconda no. Non sono i singoli segnali ma la frequenza con la quale si manifestano. E non c’è un’età a rischio. Noi crediamo che la demenza o l’Alzheimer siano malattie ‘da vecchi’ solo perché il picco massimo dei sintomi si ha tra gli 80 e i 90 anni. In realtà i primi segnali possono affacciarsi anche a 50 anni. Basti pensare che quando arrivano dopo i 60 anni si parla di esordio tardivo”.
11.    Non è mai troppo tardi per occuparsi del cervello
“Il primo errore” spiega Iannoccari “è credere che nulla si possa fare per fronteggiare l’invecchiamento cognitivo. Il cervello è un organo plastico, ovviamente subisce le lusinghe del tempo che passa, ma è in continua evoluzione. A partire dai 28/30 anni – dopo il picco dell’efficienza mentale che si ha verso i 25 anni – si iniziano a perdere neuroni, circa centomila ogni giorno. Questo significa che a 50 anni quasi un quarto del nostro potenziale è rimasto dietro di noi. Ma guardiamo al potenziale che ancora abbiamo e che può essere un patrimonio da investire per ‘vivere di rendita’ con il passare degli anni”.
12.    Il check up mentale
Secondo gli esperti, un check-up mentale è indicato a partire dai 55 anni. Ma di cosa si tratta esattamente?  “Si tratta di misurare scientificamente in quale ambiti si è più forti e in quali più deboli” spiega il presidente di Assomensana Iannoccari. “Un modo per combattere il decadimento mentale con nuove capacità cognitive. Bisogna cercare uno dei 350 specialisti (psicologi, neurologi e geriatri) nell’elenco presente sul sito dell’associazione www.assomensana.it e prendere un appuntamento. Lo specialista effettuerà gratuitamente il check-up attraverso degli esercizi cognitivi che valutano il livello di efficienza delle 10 principali funzioni cognitive e, alla fine grazie ad un computer, potrà elaborare un grafico e spiegare all’utente qual è la situazione e dove lavorare per migliorare, rafforzare, sostenere. Dura circa un’ora e alla fine si avranno anche molti consigli pratici”.

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