Spesso si parla di oggetti che, in virtù di qualche evento particolarmente drammatico che ne determinarono il cambio di proprietario o per la violazione di qualche tabù o di qualche vincolo religioso ad essi connesso, sono gravati da una maledizione che ricade su chiunque ne venga in possesso. Uno degli esempi più noti è quello del diamante Koh-i-Noor, che causò tante disgrazie ai Gran Moghul dell’India, prima, ed ai successivi possessori di sesso maschile, poi.
Forse meno noto, ma non per questo meno importante, è il caso dell’oro maledetto di Delfi, chiamato dai Romani anche Aurum tolosanum, che vide tutti i suoi possessori noti cadere sotto i colpi di un destino inesorabile.
Tutto ebbe inizio nel 279 a.C., quando una grande orda di Galli, che aveva appena sconfitto ed ucciso il re di Macedonia Tolomeo Cerauno, si riversò attraverso la Penisola Balcanica, bramosa di mettere le mani sulle ricche poleis elleniche.
Per l’occasione i solitamente litigiosi Greci riuscirono a far fronte comune contro l’improvvisa minaccia e costituirono un esercito federato che occupò il fatidico passo delle Termopili, pronto ad arginare quella marea umana, Tuttavia, così come era accaduto per i Persiani duecento anni prima, i Celti riuscirono ad aggirare la posizione degli Ellenici, che si ritirarono in tutta fretta, ognuno nella propria città.
A questo punto Brenno, il capo dei Galli, decise di puntare direttamente su Delfi, il cui santuario di Apollo strabordava di ricchissimi donativi che per secoli aveva ricevuto da città e regni di tutto il Mediterraneo. A difenderlo si trovava solo un piccolo contingente di Focesi e di Etoli, ma i sacerdoti del dio si mostrarono fiduciosi, dicendo che sarebbero giunte in loro soccorso delle “vergini bianche”.
L’attacco dei formidabili guerrieri del Nord fu violentissimo, ma i Greci ressero bene e, sia che i sacerdoti avessero davvero doti divinatorie, sia, più probabilmente, che fossero esperti meteorologi, ad un certo punto arrivarono anche le “vergini bianche”, sotto forma di fiocchi di neve. Intirizziti dal freddo, i Galli, che combattevano seminudi, finirono con il diventare facili prede di Focesi ed Etoli e vennero fatti a pezzi. Pochi riuscirono a fuggire, e tra di essi Brenno, che era riuscito ad arraffare parecchi oggetti d’oro dal tempio di Apollo. Tuttavia il capo barbaro era malamente ferito e nel corso della rovinosa ritirata, disperato, si diede la morte.
Il bottino da lui trafugato finì nelle mani di una delle tribù al suo seguito, quella dei Volci Tectosagi, che tornò nelle due sedi originarie, nel territorio dell’attuale Boemia. Da qui, sotto la continua pressione dei Germani da nord e dei Daci da est, i Volci dovettero dopo pochi decenni emigrare verso ovest, ed infine si stabilirono nella zona dell’attuale Tolosa, in Francia meridionale. Lì passarono sotto l’influenza romana, ma entrarono in rivolta nel 106, dovendo subire la punizione del console Quinto Servilio Cepione, che saccheggiò Tolosa, e, tra l’altro bottino, mise le mani anche sull’oro trafugato a Delfi, che secondo lo storico Posidonio di Apamea ammontava a 15.000 talenti. Questo tesoro, una vera manna dal cielo per l’erario di Roma, impegnata nel fronteggiare l’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, fu inviato sotto scorta verso Marsiglia, ma lungo la strada il convoglio venne assalito da non meglio precisati predoni e completamente trafugato. Molti però misero subito in dubbio che gli assalitori fossero dei veri banditi, e pensarono che tutta l’azione fosse stata concertata dallo stesso Cepione per impadronirsi dell’oro. Non ci furono sul momento prove in grado di incastrarlo, ma fatto sta che da quel momento il console, sino ad allora considerato un valido militare (aveva ottenuto il trionfo combattendo contro gli Iberici), iniziò a comportarsi in modo sconsiderato. L’anno successivo entrò subito in contrasto con il suo successore, Gneo Mallio Massimo, con il quale avrebbe dovuto condividere il comando delle operazioni contro i barbari, ed alla fine i due presero la decisione scriteriata di dividere gli accampamenti dei loro rispettivi eserciti. Cimbri e Teutoni non mancarono di approfittare dell’occasione ed il 6 ottobre, ad Arausio, attaccarono le due forze separate, annientandole; i due comandanti riuscirono a stento a scampare alla morte, ma una volta rientrati in patria furono subito messi sotto processo. Cepione finì particolarmente sulla graticola, anche per la faccenda dell’oro trafugato: nel 104 fu privato dell’imperium, cioè della facoltà di guidare eserciti, con voto popolare, e l’anno successivo subì un pesante processo per l’accusa di aver sottratto il tesoro dei Volci allo stato con la finta rapina. Condannato, si vide confiscare tutte le sue proprietà e venne inviato in esilio a Smirne, dove morì anni dopo.
Poiché del tesoro di Delfi non fu rinvenuta traccia, si suppose che esso fosse rimasto alla famiglia di Cepione, in particolar modo al suo primogenito ed omonimo. Costui svolse la normale carriera di un aristocratico romano nella cosa pubblica, rivestendo anche le cariche di pretore e di proconsole, ma nel 90, nel corso della Guerra Sociale, cadde in un’imboscata tesagli dai ribelli Marsi e Vestini, che lo catturarono e lo misero a morte. Suo figlio, anch’egli omonimo, sembra essere scampato alla maledizione, ma non altrettanto fortunato fu suo nipote Marco Giunio Bruto, che egli adottò, e che fu poi uno dei principali artefici dell’assassinio di Caio Giulio Cesare (che forse era il suo padre naturale) e finì i suoi giorni suicida, dopo esser stato vinto da Marco Antonio e da Ottaviano a Filippi nel 42.
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