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Il Man in Black che protegge i pianeti dalla contaminazione biologica

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Il garante dello spazio: “Mi chiamano Man in black ma io non caccio gli alieni”. Il fisico austriaco Gerhard Kminek difende i pianeti, compresa la Terra, da contaminazioni chimico-biologiche.Occhiali specchiati, espressione indecifrabile, abito scuro, auricolare nelle orecchie, neuralizzatore in mano. Professione: man in black. Ovvero l’uomo incaricato di proteggere la Terra da incursioni aliene. E non è solo un personaggio di fantascienza: l’agente K esiste davvero. Solo che è un po’ diverso da come ce lo ha mostrato il regista Barry Sonnenfeld nel film cult del 2007. Così come sono un po’ diverse le sue mansioni: il vero man in black è austriaco, ha 49 anni, è laureato in fisica ed è un padre di famiglia appassionato di arrampicata e immersioni. Si chiama Gerhard Kminek e lavora per conto dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea. Sulla porta del suo ufficio – al Centro europeo per la ricerca e la tecnologia spaziale a Noordwijk (Olanda) – c’è scritto “Planetary protection officer”, ossia “Ufficiale di protezione planetaria”: un ruolo, in verità, poco fanta e molto scientifico.

Gerhard Kminek
Gerhard Kminek

Il professor Kminek, infatti, da 10 anni si occupa di proteggere tutti i pianeti del Sistema solare da influenze esterne (leggi: terrestri) che potrebbero provocare contaminazioni chimico-biologiche e alterazioni ambientali. Naturalmente, tra i compiti di Kminek c’è anche quello di evitare la possibilità, invero molto più remota (almeno per il momento), che campioni di materiale extraterrestre portino ospiti indesiderati sul nostro pianeta. Ecco cosa ha raccontato a Repubblica.

In cosa consiste concretamente il suo lavoro?
«Devo certificare che le missioni siano conformi agli impegni del Trattato sullo spazio extra-atmosferico dell’Onu, il documento ufficiale che regola la protezione planetaria. Mi occupo di stabilire i requisiti per le missioni dell’Esa, monitorando la progettazione, la costruzione e il volo delle navicelle. Intervengo in tutte le fasi dei progetti: organizzo il training del personale, mi occupo delle certificazioni dei laboratori, supervisiono la fase della costruzione dei componenti delle navicelle in camera bianca. Un lavoro sia pratico che teorico. Condivido questa responsabilità con Catharine Conley, che fa le stesse cose alla Nasa e che però è a fine mandato: l’agenzia spaziale Usa ha da poco pubblicato un annuncio per trovare un sostituto».

Ma la possibilità di “contaminare” altri pianeti con materiale biologico terrestre è davvero concreta?
«Assolutamente sì. Ogni navicella che inviamo dalla Terra verso un altro pianeta porta con sé materiale biologico e microbi, che possono facilmente contaminare il luogo di destinazione. Bisogna prestare particolare attenzione a Marte o altri pianeti potenzialmente candidati a ospitare (o aver ospitato) la vita: se li contaminassimo con materiale biologico terrestre, la ricerca e l’identificazione di forme di vita aliena potrebbero essere drammaticamente compromesse. È fondamentale, quindi, controllare ancora prima del decollo l’eventuale presenza di microrganismi all’interno delle navicelle e provvedere, se necessario, a una sterilizzazione accurata».

La contaminazione nel senso inverso, invece, è molto più inquietante. Dobbiamo prenderla sul serio?
«Direi proprio di sì. La Nasa e l’Esa, in particolare, lavorano a stretto contatto con università ed enti nazionali e internazionali che svolgono ricerca sul campo. Anche in questo caso, esistono raccomandazioni e linee guida ben precise che regolano il trasporto e la manipolazione di materiali extraterrestri (per esempio i campioni di suolo marziano che ci ripromettiamo di recuperare nel futuro prossimo)».

L’hanno mai accostata ai Men in black?
«Lo hanno fatto e lo fanno in tanti. Capita. Ma capita anche di dover anche precisare – a proposito del mio lavoro – che non mi occupo affatto di neutralizzare gli extraterrestri».

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