All’inizio del XV secolo, un ipotetico osservatore esterno del nostro pianeta, dovendo scommettere su chi avrebbe scoperto le Americhe tra le civiltà più avanzate del globo, sicuramente non avrebbe puntato sulla Spagna, la Francia o l’Inghilterra, e nemmeno sul Portogallo, bensì sulla Cina.
In quel periodo, nella fase iniziale della dinastia Ming, l’enorme flotta di navi di giunco del Celeste Imperatore, condotta dall’ammiraglio Zheng He, compiva ogni anno lunghissime traversate dell’Oceano Indiano, visitando svariate popolazioni e stabilendo con esse proficue relazioni commerciali. In effetti, lo scrittore britannico Gavin Menzies ha ipotizzato nel suo libro 1421: The Year China Discovered the World, insieme alla scoperta di molte altre terre, un effettivo sbarco cinese sulle coste californiane, ma le prove addotte a sostegno di tale ipotesi non hanno convinto per nulla gli altri studiosi.
Se effettivamente una traversata dell’Oceano Pacifico da parte di navi di giunco appare quanto meno problematica, molto meno impraticabile sembra la possibilità che i marinai dell’Impero Ming possano aver anticipato quelli europei nella scoperta di un’altra terra, l’Australia.
Le acque dell’Asia sud-orientale erano da lungo tempo familiari per i commercianti cinesi, e loro floride comunità si trovavano in tantissime delle isole dell’arcipelago indonesiano, anche a Timor, distante dalle coste australiane 650 chilometri.
La possibilità di uno sbarco di navigatori orientali in Australia è suffragata innanzi tutto da alcuni notizie di viaggio che parlano di una terra in cui gli indigeni erano armati di coltelli ricurvi e nella quale vivevano animali che visti davanti rassomigliavano a topi, mentre dalle spalle avevano l’aspetto di conigli, e si spostavano saltellando, portandosi appresso i cuccioli. Balza subito agli occhi la similitudine dei coltelli ricurvi con i boomerang e degli strani animali con i canguri. D’altro canto, il grande studioso della cultura cinese Joseph Needham ha reperito tra i racconti degli aborigeni australiani descrizioni di alcuni uomini dalla pelle chiara che sarebbero approdati sulle coste settentrionali dell’isola-continente, in possesso di tecnologie avanzate e che si chiamavano baijini, termine che potrebbe riportare al cinese pei jen (i settentrionali).
Esiste (o meglio, esisteva) anche una prova archeologica sulla presenza di Cinesi in Australia in epoca pre-coloniale: una statuetta dello spirito della longevità, Shou Lao, ritrovata nel 1879 ad un metro e mezzo di profondità, sotto le radici di un fico di Banian vecchia di 200 anni. Dagli esami cui venne sottoposta risultò autentica, e risalente probabilmente al XV secolo. Purtroppo in seguito questo prezioso reperto andò perduto e non poté essere sottoposto ad ulteriori controlli.
Tutto considerato, l’ipotesi che navi della flotta più potente dell’epoca possano aver raggiunto le coste australiane non appare per nulla campata in aria, ed anche il fatto che una simile scoperta non venisse ulteriormente sfruttata ha una sua ragion d’essere. I Cinesi sono sempre stati un popolo estremamente pratico, poco attratti dalla gloria fine a se stessa e molto attenti ai vantaggi concreti di ogni iniziativa: la prospettiva di intensificare i rapporti con popolazioni ferme ad un tipo di civiltà paleolitico deve esser sembrato loro del tutto superfluo ed economicamente svantaggioso. Oltre a ciò, dopo la morte di Zheng He, nel 1433, alla corte di Pechino si impose la fazione che auspicava una quasi completa chiusura dei rapporti con il mondo esterno, e presto anche la grande flotta imperiale perse gran parte della sua efficienza.
Così, un po’ come accadde con i Vichinghi per il Vinland, la scoperta di un nuovo continente fu relegata tra i tanti racconti di viaggio più o meno fantasiosi, ed il suo merito fu lasciato al navigatore olandese Willem Janszoon, nel 1606.
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