Da decenni ci si accapiglia per stabilire chi siano stati i primi abitanti del Vecchio Continente a scoprire le Americhe (Cristoforo Colombo? I pescatori di Bristol? I Vichinghi? Addirittura i Fenici?), ma nessuno, o quasi, si è mai posto la domanda di chi sia stato il primo Nativo Americano a mettere piede in Europa.
Evidentemente la domanda può sembrare oziosa, perché gli Amerindi non avevano, o non avrebbero avuto, le conoscenze nautiche in grado di garantire loro il passaggio dell’Oceano Atlantico, eppure non mancano indizi che lasciano supporre che alcuni di tali viaggi, per quanto involontari, possano aver avuto luogo.
Un primissimo contatto potrebbe risalire addirittura all’epoca romana, e viene riportato dagli scrittori Pomponio Mela e Plinio il Vecchio, che a loro volta citano un’opera perduta di un loro collega, Cornelio Nepote. Secondo tale testimonianza, nel 62 a.C. il proconsole della Gallia Quinto Metello Celere ricevette in dono dal re dei Suebi un gruppo di uomini, definiti “Indi”, che teneva prigionieri. Costoro spiegarono di aver preso il mare per commerciare, ma che delle violente ed improvvise tempeste li avevano spinti fuori rotta, sino a gettarli sulle coste della Germania settentrionale. Ovviamente è fuori discussione che navigatori provenienti dall’India possano esser stati trascinati per mare sino all’Europa settentrionale: avrebbero dovuto doppiare il Capo di Buona Speranza, circumnavigare l’intera costa occidentale dell’Africa e dell’Europa ed attraversare la Manica senza mai toccare terra! Alcuni, allora, hanno preferito intendere il termine “Indi” in un’accezione più elastica, nel senso di individui dalle strane caratteristiche, ed hanno ipotizzato che si trattasse di Eschimesi o Algonchini provenienti dall’America. Anche in questo caso, però, resterebbe da capire come avessero potuto evitare di approdare su qualcuna delle isole britanniche prima di raggiungere il continente.
Una seconda testimonianza del possibile approdo di Amerindi sulle coste europee ci viene addirittura da Cristoforo Colombo, che in una nota alla sua copia dell’Imago Mundi affermò che nel 1477, nel corso di una sua visita al porto di Galway, in Irlanda occidentale, aveva visto i corpi di un uomo ed una donna del Catai giunti lì a bordo di due imbarcazioni di legno. La descrizione si attaglierebbe a due Inuit a bordo di due kayak, tuttavia i disgraziati erano già morti al momento dell’approdo, dunque non possono essere considerati come scopritori di un nuovo continente. Questo evento, tuttavia, se corroborato da ulteriori prove, fornirebbe la dimostrazione che anche le primitive imbarcazioni dei Nativi Americani sarebbero state in grado di solcare le acque dell’Atlantico.
Un indizio ancora più intrigante e sicuro sull’arrivo in tempi remoti sul suolo europeo di abitanti del Nord America sembra essere fornito dalle ricerche sul DNA mitocondriale condotte su campioni della popolazione dell’Islanda. Quest’isola, rimasta praticamente isolata per secoli dal resto del continente, è considerata particolarmente interessante per i genetisti. Ebbene, in alcuni individui testati è stata riscontrata la presenza dell’aplogruppo mitocondriale C1, tipico delle popolazioni amerinde; ulteriori esami hanno permesso di stabilire che questa presenza è sicuramente risalente alla prima metà del XVIII secolo, quindi non può essere attribuita ad apporti recenti, quando l’Islanda era ormai più aperta al resto del mondo.
Considerando la storia più remota dell’isola, è evidente che il periodo in cui essa mantenne maggiori contatti con le terre al di là dell’Atlantico fu quello degli inizi, quando essa venne colonizzata dai Vichinghi, che poi si spinsero con le loro esplorazioni sino alla Groenlandia, dove si insediarono stabilmente, ed alle coste nordamericane, che continuarono a frequentare a lungo: sappiamo dai resoconti degli annali locali che ancora nel 1347 una nave groenlandese giunse in Islanda dopo aver perso la rotta a causa di una tempesta di ritorno dal Markland (Terra dei Boschi, identificata con l’attuale Labrador), dove aveva prelevato del legname. Potrebbe essere che nel corso di questi rari, ma costanti contatti siano giunti sull’isola dei ghiacci anche degli amerindi, forse schiavi, forse compagne di alcuni dei marinai nordici di ritorno dai loro viaggi, e che essi siano stati gli involontari scopritori del Vecchio Continente.
Questa ipotesi potrebbe essere rafforzata da un episodio riportato dai soliti annali islandesi, riguardanti un personaggio locale di una certa fama per aver compiuto un pellegrinaggio a Gerusalemme, Bjorn Einarsson Jerusalemfarer. Costui nel 1385 naufragò in Groenlandia e vi venne trattenuto per un paio d’anni e costretto a commerciare. Durante il suo forzato soggiorno, l’islandese ebbe modo di salvare la vita a due piccoli “troll” rimasti intrappolati su uno scoglio circondato dal mare; troll venivano a volte chiamati gli Skraelings, abitanti della Groenlandia e del Nord America identificabili con gli Inuit o anche con alcune popolazioni algonchine. I due bambini si affezionarono al loro salvatore e divennero suoi devoti servitori, ma quando, nel 1387, Bjorn ebbe l’occasione di rientrare in Islanda decise di non portarli con sé. I piccoli, inconsolabili, finirono con il lasciarsi annegare.
Forse qualche altro islandese capitato, volente o nolente, in Groenlandia in questo periodo (è attestato che ne giunsero sino al 1410) ebbe l’opportunità di prendere con sé qualche bambino o più probabilmente qualche donna inuit, consenziente o meno, ed al momento del ritorno in patria, al contrario di Bjorn, decise di non separarsi da quella compagnia.
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