Le altre pandemie italiane, viste dai giornali. Dall’influenza asiatica del 1959 alla SARS del 2003: storia di come la stampa reagì davanti alla minaccia di un contagio senza cure.
Non è la prima volta che, come in questi giorni, l’Italia si trova ad affrontare una grave epidemia contro la quale non ci sono ancora cure efficienti. L’epidemia della SARS del 2003 – un virus della stessa famiglia del nuovo coronavirus ma molto più letale e che le autorità sanitarie riuscirono a contenere rapidamente – è ancora fresco nella memoria di molti. Ma non sono pochi quelli che, più indietro nel tempo, ricordano ancora l’influenza asiatica alla fine degli anni Cinquanta, o quella di Hong Kong del decennio successivo, due pandemie che colpirono quasi metà della popolazione italiana e fecero migliaia di morti più delle normali epidemie di influenza.
Oggi queste storie ci insegnano come potrebbero cambiare le nostre vite e come, in questi anni, è cambiata la nostra società.
Stando alle definizioni dell’Istituto Superiore di Sanità, il nostro paese ha vissuto negli ultimi cento anni tre distinte pandemie (quella attuale causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2 non è stata ancora considerata tale).
La prima a colpire il nostro paese, e la più letale, fu la famosa influenza spagnola, nata negli ospedali da campo della Prima guerra mondiale (o negli Stati Uniti, secondo altri studi) e responsabile della morte di almeno 50 milioni di persone, il doppio secondo altre stime. A lungo trascurata dagli storici e dalla pubblicistica, l’epidemia di spagnola fu un evento cataclismatico per il nostro paese, uccise seicentomila persone e, soprattutto al Sud, fu affrontata con risorse del tutto inadeguate.
Nel dopoguerra, poi, l’Italia venne colpita dalla cosiddetta “influenza asiatica”, causata da un sottotipo del virus influenzale H2N2 fino a quel momento sconosciuto, e contro il quale gli esseri umani non avevano praticamente alcuna difesa.
Il virus H2N2 si sviluppò in Cina in una popolazione di anatre selvatiche. Probabilmente a metà degli anni Cinquanta fece il “salto” nella specie umana, e per qualche tempo rimase confinato nel sud del paese. Poi una mutazione del virus si rivelò particolarmente aggressiva e il contagio iniziò a diffondersi fuori dalla regione dove si era originato.
All’inizio del 1957 le autorità cinesi dichiararono che nel sud del paese era in corso un’epidemia. Ad aprile, l’epidemia era arrivata a Singapore e nella colonia britannica di Hong Kong. Il mondo iniziò ad allarmarsi. Dall’Italia, i giornali seguirono il progredire di quella che stava diventando la prima pandemia del dopoguerra con articoli che nelle pagine interne descrivevano il contagio spostarsi dall’Asia all’Africa e al Sud America, raccontando «l’apprensione» delle autorità britanniche o la tranquillità di quelle olandesi, dove l’influenza era arrivata da una nave proveniente dall’Indonesia.
In Italia l’asiatica colpì molto prima delle tradizionali influenze. I primi casi vennero segnalati a Sud nel mezzo della stagione più calda. Ad agosto un terzo della popolazione di Napoli era ammalata. A trasportare il virus furono soprattutto le centinaia di migliaia di soldati di leva, che tra licenze, permessi, esercitazioni e parate si muovevano da un capo all’altro del paese. A settembre, il ministro della Difesa parlava di 20 mila soldati ammalati e tre morti, ma nonostante questo, comunicava che l’asiatica aveva un decorso «estremamente benigno».
Anche gli esperti minimizzavano la pericolosità del contagio, e alcuni arrivarono a sostenere che la nuova influenza era più benigna della normale epidemia stagionale.
Alla fine di agosto, la Stampa titolava in alto a pagina 4: “Non giustificato l’allarme per «l’influenza asiatica»”, mentre dieci giorni dopo soltanto un piccolo trafiletto sul fondo di pagina 7 annunciava tra le “ultime notizie” l’arrivo del contagio in Piemonte. Anche se l’evolversi della pandemia fu seguito in maniera sobria, non mancarono – come oggi – gli episodi contraddittori. A ottobre, ad esempio, il commentatore della Stampa Paolo Monelli scriveva che «il terrore per una gentile influenza è dovuto solo al nome: asiatica», dalle colonne di quello stesso quotidiano, La Stampa, che del nome aveva fatto ampio uso.
Non fu soltanto il nostro paese a trattare la pandemia senza allarmismi e, a volte, persino con leggerezza. «La narrazione creata intorno alla pandemia sfruttò soprattutto i temi dell’ottimismo e della fede nella scienza», ha scritto la studiosa di giornalismo Debra E. Blakely nel suo Mass Mediated Disease, uno studio sulla copertura mediatica delle pandemie da parte dei principali giornali in lingua inglese.
Questo atteggiamento era almeno in parte giustificato dal fatto che, a differenza del nuovo coronavirus, l’influenza asiatica era effettivamente “solo” un’influenza. Ma non era più “benigna” del solito, anzi era molto più aggressiva.
Secondo stime successive, l’asiatica contagiò tra il 10 per cento e un terzo dell’intera popolazione mondiale. In Italia contrasse la malattia un italiano su due, 26 milioni di persone, tra cui l’85 per cento della popolazione tra i 6 e i 14 anni. Con una mortalità stimata inferiore allo 0,2 per cento (cioè 0,2 morti ogni cento persone contagiate), l’influenza asiatica era comunque ben più pericolosa di una normale influenza stagionale, che ha una mortalità in genere dello 0,01 per cento e solitamente viene contratta dal 10-15 per cento della popolazione. In Italia, le morti causate dall’asiatica furono stimate in circa 30 mila.
Negli Stati Uniti, dove la malattia si presentò in una forma più aggressiva, furono 116 mila. In tutto il mondo, si calcola che i morti furono tra uno e 4 milioni.
Allora come oggi la politica si divise, anche se l’epidemia non ottenne mai il centro del dibattito (nemmeno il contagio della moglie del presidente della Repubblica, il settantenne Giovanni Gronchi, riuscì a portare l’influenza in prima pagina). I comunisti accusarono il governo guidato dal democristiano Adone Zoli di non aver affrontato adeguatamente l’epidemia e dalle pagine del quotidiano di partito L’Unità scrissero che «si doveva e si poteva fare di più».
Agli attacchi rispose l’Alto commissario per l’igiene e la sanità (il ministero della Sanità, diventato oggi della Salute, sarebbe stato creato soltanto l’anno successivo), il senatore Trentino Angelo Mott, che ammise alcuni errori iniziali, ma rassicurò sulla gravità della malattia.
Alcune centinaia di migliaia di italiani poterono persino ascoltare e vedere in televisione l’Alto commissario mentre garantiva che «il decorso della malattia» era nel complesso «benigno»; e, visto che la RAI aveva iniziato le trasmissioni regolari appena tre anni prima, Mott potrebbe quindi essere stato il primo politico in assoluto a pronunciare in televisione le parole «non è il caso di allarmarsi».
A parte la decisione di assecondare la richiesta di alcune autorità sanitarie locali, e consentire che alcune scuole elementari nelle zone più colpite rimanessero chiuse qualche giorno in più al ritorno dalle ferie estive, degli interventi di Mott e dei ministri di allora per fronteggiare l’epidemia non è rimasta grande traccia. Al discorso funebre tenuto dal presidente del Senato Amintore Fanfani, dopo la morte di Mott, il suo ruolo durante la crisi dell’epidemia non venne nemmeno menzionato.
Negli anni successivi il virus dell’asiatica tornò a visitare il nostro paese e il resto del mondo, ma in una forma molto meno contagiosa. Il virus scomparve più o meno definitivamente dieci anni dopo, quando tra il 1968 e il 1969 scoppiò una nuova pandemia influenzale.
Anche questa volta il contagio proveniva dall’Asia. Il virus responsabile venne battezzato H3N2 e l’epidemia che causò divenne nota come “influenza di Hong Kong”, o “influenza spaziale” a partire dall’inverno del 1969 (pochi mesi prima, a luglio, il primo uomo era sbarcato sulla Luna). Le due ondate principali che colpirono l’Italia, nell’inverno del 1968-69 e in quello successivo, contagiarono circa un terzo degli abitanti, tra i 10 e i 13 milioni di persone (il doppio di una normale influenza stagionale) e causarono probabilmente circa 20 mila morti, mentre in tutto il mondo morirono più di un milione di persone.
Anche se il virus era meno aggressivo e mortale del precedente virus “asiatico”, e la pandemia impiegò circa un anno a diffondersi in tutto il mondo causando molti meno morti, la reazione dell’opinione pubblica, dei giornali e della politica fu piuttosto diversa.
Blakely nota come tendenzialmente i giornali, divenuti sempre meno paludati e più smaliziati rispetto al decennio precedente, raccontarono l’epidemia utilizzando toni drammatici e accattivanti, nel tentativo di attirare i loro lettori.
Nell’inverno del 1967, per esempio, il Times di Londra pubblicò una descrizione della situazione a Brighton che sembrava uscita da una cronaca dell’influenza spagnola di mezzo secolo prima: «Una sala d’aspetto nell’ospedale di Brighton è stata trasformata in un obitorio improvvisato e un cimitero ha affittato una pala escavatrice per scavare fosse comuni a causa del rapido incremento del tasso di mortalità negli ultimi 10 giorni. Circa 300 persone sono morte durante questa epidemia di influenza». Poco tempo dopo, il New York Times definiva la pandemia in corso «una delle peggiori influenze nella storia di questa nazione».
Anche in Italia, la nuova epidemia venne accolta con un nervosismo apparentemente superiore a quello del decennio precedente.
I giornali italiani, per esempio, riportarono con molti dettagli la notizia che il presidente americano Lyndon Johnson era tra gli ammalati. Questa volta la pandemia non ebbe difficoltà a finire sulle prime pagine e spesso lo fece con titoli urlati. Iniziarono a comparire i superlativi e le descrizioni colorite: il “morbo di Mao” era “esploso” a Hong Kong e aveva “invaso” gli Stati Uniti dove erano “tutti a letto”. La malattia era una “influenza killer” e titoli a quattro colonne ne annunciavano i “terribili” e “salati” effetti economici.
In realtà, la pandemia si esaurì in fretta e con poche conseguenze. Dopo le prime due ondate, l’influenza perse il suo carattere aggressivo e da allora il virus H3N2 è divenuto il responsabile delle normali influenze stagionali.
Nel nuovo millennio, un impatto altrettanto grande sull’opinione pubblica, se non superiore, lo ebbero altre due epidemie: quella della SARS e l’influenza aviaria. «Due grandi paure pandemiche che segnarono l’inizio del XXI secolo», come le hanno definite Alessia Melagro e Guido Alfani nel loro recente libro Pandemie d’Italia, insistendo sul “paure pandemiche” perché nessuno dei due episodi fu, tecnicamente, una vera e propria pandemia.
La SARS (che sta per “sindrome respiratoria acuta grave”) era causata da un coronavirus, come quello al centro dell’epidemia di questi giorni, e si diffuse in Asia all’inizio del 2003. Uno dei primi medici a identificare la nuova malattia, l’italiano Carlo Urbani, che all’epoca lavorava ad Hanoi, in Vietnam, rimase ucciso dalla malattia e il suo caso, raccontano gli autori del libro, «ebbe un impatto tale sulla pubblica opinione da influenzare sensibilmente la percezione di quello che stava accadendo». Importanti misure di contenimento furono prese in Italia e nel resto del mondo, con controlli agli aeroporti e la predisposizione degli ospedali specializzati per accogliere centinaia di casi.
Fortunatamente la malattia non si dimostrò particolarmente contagiosa e le misure prese si rivelarono efficaci. In tutto il mondo ci furono solo 8 mila casi e i morti furono poco meno di 800. In Italia i casi furono soltanto quattro.
Come concludono i due autori del libro: «L’attenzione dei media nei confronti della SARS fu decisamente esagerata rispetto alle reali conseguenze dell’infezione». Lo stesso accadde pochi anni dopo, quando il timore che il virus dell’influenza aviaria H5N1 avesse fatto il salto negli esseri umani portò ad adottare misure draconiane nei confronti degli allevamenti di tutto il mondo, con l’eliminazione precauzionale di migliaia di animali. «Come accadde per la SARS», scrivono Melagro e Alfani, «i mass media giocarono un ruolo importante nella diffusione di timori tra la popolazione».
L’epidemia di COVID-19 causata dal nuovo coronavirus appare più simile alla SARS che alle altre epidemie di massa a cui il nostro paese ha assistito: per il momento i contagi si contano in migliaia e i morti a centinaia, non a milioni e decine di migliaia, e gli effetti economici sono dovuti ai timori che il contagio possa diffondersi e alle preoccupazioni per evitare che questo accada, più che al fatto che milioni di persone sono malate e incapaci di lavorare.
Ma la storia di questa epidemia si potrà fare soltanto in futuro, spiega al Post il professor Alfani, che oggi insegna Storia economica all’Università Bocconi. Solo allora sapremo se davvero questa epidemia è una sorta di «SARS elevata a potenza», cioè «una malattia con la capacità di coinvolgere più paesi, che causa più morti e ha un impatto maggiore della SARS, ma che una volta esaurita si riesce ad eliminare o contenere». Oppure se siamo di fronte a qualcosa destinato a coinvolgere una fetta molto più ampia della popolazione e per molto più tempo.
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