Se non hai mai sofferto di un disturbo mentale non sei “normale”. La percentuale della popolazione che a un certo punto della propria vita ha sperimentato un disturbo psichiatrico, come può essere la “depressione maggiore”, è identificabile con ciò che gli epidemiologi chiamano “prevalenza una tantum”. Questa statistica ha una serie di importanti implicazioni pratiche. Ad esempio, tassi più elevati di un determinato disturbo potrebbero suggerire a uno Stato che debbano essere allocate risorse maggiori per supportarne la diagnosi e il trattamento precoce. La prova che i problemi mentali siano relativamente comuni potrebbe poi fornire un po’ di conforto a chi ne è affetto, aiutando a ridurne lo stigma. Dato che molti disturbi psichici possono essere causati o esacerbati da problematiche strutturali della società, i dati che mostrano un’alta prevalenza di patologie potrebbero inoltre incoraggiarci a indagare più da vicino le principali fonti di stress della vita contemporanea – come la disparità di reddito, il razzismo sistemico o l’esposizione alla violenza. Infine, una loro elevata prevalenza potrebbe mettere in discussione alcune delle nostre convinzioni più radicate rispetto alla natura della salute mentale, inclusa quella, ad esempio, che una vita scevra da disturbi mentali rappresenti la norma, mentre qualsiasi esistenza che non soddisfi questo standard sia invece una sfortunata aberrazione.
Date queste importanti implicazioni, potrebbe stupirci il fatto che le statistiche e i dati di prevalenza in ambito psichiatrico abbiano iniziato solo di recente a consolidarsi. Uno dei motivi principali è che, per la maggior parte del Ventesimo secolo, i disturbi psichiatrici erano troppo nebulosi per poter essere diagnosticati in modo affidabile da intervistatori non professionisti in ampi sondaggi comunitari. Un modo per aggirare questo scoglio è stato quello di considerare la percentuale di individui con patologie diagnosticate da professionisti qualificati all’interno di contesti di trattamento, ma poiché la maggior parte delle persone con un problema di salute mentale diagnosticabile non cercava – e tutt’ora spesso non cerca – di ricevere cure, il numero di clienti trattati dal sistema sanitario era – ed è – spesso inferiore al numero di persone realmente alle prese con questo genere di situazione clinica.
Col passare del tempo, tuttavia, i criteri diagnostici e le interviste utilizzate in psichiatria migliorarono abbastanza per far sì che le diagnosi potessero essere condotte con un certo grado di affidabilità anche da intervistatori non professionisti. Questi progressi gettarono le basi per la National Comorbidity Survey (NCS). Condotta all’inizio degli anni Novanta, la NCS è stata la prima ricerca su larga scala negli Stati Uniti a valutare l’incidenza dei disturbi mentali su un campione rappresentativo di popolazione. Sulla base di interviste fatte a più di 8mila partecipanti adulti, il sondaggio rivelò che quasi uno su tre nei 12 mesi precedenti aveva soddisfatto i criteri per una possibile diagnosi psichiatrica e che quasi la metà, a un certo punto della propria esistenza, aveva sperimentato una patologia psichiatrica diagnosticabile.
Le prime reazioni alla NCS furono contrastanti: alcuni interpretarono i risultati come prova di un’“epidemia” sotterranea di malattie mentali, altri invece sostenevano che gli alti tassi di patologie riscontrati da questo e altri studi dessero semplicemente riprova che la psichiatria fosse un tentativo di “medicalizzare la normalità”. In contrasto a questo scenario contenzioso presero avvio nuovi studi longitudinali, che seguirono poi per decenni i partecipanti e fecero emergere un altro importante fenomeno: il cosiddetto “recall failure”, ovvero l’incapacità di ricordare e riportare correttamente episodi avvenuti in un passato più o meno recente.
Con “recall failure” si intente genericamente la discrepanza tra ciò che una persona riferisce rispetto a un momento temporale del passato e ciò che è effettivamente successo. Ad esempio, in epidemiologia, se segui le stesse persone per tre decenni e chiedi loro ogni pochi anni se hanno mai avuto il diabete, la ricerca mostra che il numero di persone che dicono “sì” a un certo punto durante questo lungo periodo sarà generalmente lo stesso che dice “sì” quando glielo si richiede alla fine dello studio. Pertanto, il diabete è una condizione patologica con un recall failure minimo, perché le persone che hanno il diabete difficilmente se lo dimenticano. Al contrario, gli studi longitudinali sui disturbi psichiatrici rilevano che queste condizioni sono più probabili del doppio quando le persone vengono valutate ripetutamente rispetto a quando vengono valutate una sola volta e viene chiesto loro di ripercorrere all’indietro la loro vita. Questo è un segno di alto recall failure. Le ragioni degli alti tassi riscontrati in relazione a questo bias in ambito psichiatrico sono complesse e sfaccettate, ma la principale è che la maggior parte di questi episodi psichici è temporanea e le persone (specialmente quelle che non sentono il bisogno di un trattamento), una volta che ne sono uscite e si sentono meglio, spesso dimenticano o riformulano le loro difficoltà.
In passato ho indagato la questione dell’alta incidenza dei disturbi mentali con alcuni colleghi della Duke University, in North Carolina. Per avere un quadro aggiornato e completo del fenomeno abbiamo scritto un rapporto che riassumesse i risultati di alcuni dei più recenti studi epidemiologici condotti nel mondo in ambito psichiatrico e psicologico. Per ridurre al minimo l’effetto distorsivo del recall bias, abbiamo posto particolare enfasi su studi longitudinali, decennali e su campioni comunitari. Negli studi più lunghi, con campioni valutati più frequentemente, abbiamo riscontrato che i tassi di “prevalenza una tantum” del disturbo psichiatrico si avvicinavano all’80% o lo superavano. Questo è stato un risultato incredibile perché ha suggerito che, statisticamente parlando, non solo è comune aver vissuto almeno un episodio diagnosticabile, ma è normale. E sebbene i detrattori della psichiatria possano considerare un’affermazione del genere come l’ennesimo tentativo di “patologizzare l’esperienza umana”, da un’altra prospettiva la scienza sta semplicemente confermando che i problemi di salute mentale sono in realtà molto simili a quelli di fisici – comuni, spesso temporanei e, per la maggior parte di noi, conseguenza inevitabile dell’usura della vita quotidiana.
I tassi di disturbi mentali che per la prima volta nella storia relativamente breve della psichiatria stiamo registrando forse suggeriscono che tutti noi – ricercatori, clinici e non – dovremmo probabilmente riconsiderare cosa significhi stare “mentalmente bene”. Questo filone di ricerca, inoltre, evidenzia un altro aspetto importante. Se vivere una vita “normale” significa aver affrontato, almeno una volta nella vita, un problema di salute mentale diagnosticabile, come definiamo quella piccola minoranza di persone che non sembra mai sviluppare sintomi simili nel corso della vita? Cosa potremmo imparare da loro?
I miei colleghi e io abbiamo deciso di dare un’occhiata più da vicino a queste “star” nei nostri dati, che godono di quella che abbiamo chiamato “salute mentale duratura”. Per i ricercatori in psichiatria questo gruppo di persone è interessante quanto lo sono i centenari per i gerontologi. È infatti possibile che studiando la biologia, la psicologia e gli ambienti di questi individui insoliti si riescano infine a scoprire i segreti della loro apparente resilienza mentale ed emotiva. Una scoperta che ci ha sorpresi è che le persone con una salute mentale duratura non sono nate necessariamente in condizioni di privilegio. La posizione socioeconomica dei genitori potrebbe proteggere da alcune delle peggiori forme di determinati disturbi mentali, è vero, ma sembra avere poca o nessuna incidenza sulla possibilità di vivere un’intera vita al riparo da condizioni psichiatriche diagnosticabili. Ciò che sembra essere invece più importante è la storia della salute psichica dei genitori stessi: le persone che nel corso della loro vita non sviluppano alcun problema di salute mentale diagnosticabile tendono infatti a provenire da ambienti familiari in cui allo stesso modo queste condizioni sono relativamente rare. Ciò suggerisce che le persone con una salute mentale duratura potrebbero beneficiare di geni protettivi che promuovono un efficace adattamento di fronte alle avversità, o anche di sottili differenze nelle pratiche genitoriali tramandate di generazione in generazione.
Se le relazioni tra salute mentale duratura e caratteristiche familiari sono molto stimolanti, i risultati più significativi degli studi condotti sulle persone che ne sono in possesso riguardano gli attributi individuali che potremmo essere in grado di cambiare per raggiungere quello stesso stato. Ad esempio, le persone che non sviluppano mai un problema di salute mentale diagnosticabile tendono a essere meno emotive, più sociali e da bambini mostrano un migliore autocontrollo. Questa scoperta si allinea con i risultati di altre ricerche secondo le quali la maggior parte dei disturbi psichiatrici si verifica in modo sproporzionato negli individui con personalità nevrotiche, bassa amicalità e bassa coscienziosità (il che significa che queste persone tendono a provare forti emozioni negative, sono difficili da affrontare e faticano ad organizzarsi e ad avere autodisciplina). Sebbene i tratti della personalità siano stati tradizionalmente pensati come modelli di comportamento relativamente fissi, un nuovo ma crescente filone di ricerca suggerisce che le nostre personalità possano effettivamente essere modellate in modo significativo e duraturo da esperienze che includono psicoterapia, psicofarmaci e interventi non clinici – come la mindfulness, la meditazione e programmi di esercizi aerobici. E con il tempo, la mia ricerca così come quelle di altre persone che esaminano i geni, il cervello e il corpo di persone con salute mentale duratura potrebbero, si spera, scoprire e sistematizzare ulteriori metodi di trattamento.Detto ciò, in questo momento credo che la parte più importante di questa storia non siano tanto gli indicatori di una salute mentale duratura – ma l’alto tasso di malattie mentali riscontrato. La scienza ha appena iniziato a studiare e identificare i fattori comportamentali, ambientali e le abitudini che compongono il nostro stile di vita associati all’assenza di disturbi mentali, e i benefici pratici che deriveranno da questo tipo di ricerche sono probabilmente ancora lontani. D’altra parte, si stanno accumulando ormai da decenni studi che documentano la rarità della salute mentale duratura e invece la “normalità” del suo opposto. Eppure, per troppe persone il processo di accettazione e trattamento delle patologie psichiatriche è ancora accompagnato da sentimenti di inferiorità, alienazione e vergogna inutili e ingiustificati. Questa dissociazione tra la propria percezione e la realtà della malattia mentale è controproducente e deve interrompersi. Mi rendo conto che questo obiettivo probabilmente non sarà raggiunto del tutto limitandosi a educare più persone possibili alla statistica delle malattie mentali, ma ciononostante credo sia un buon punto di partenza.
Questo articolo è stato tradotto da Psyche, il vertical di Aeon sulla psicologia
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