Ai giorni nostri, il volo nello spazio è ormai dato per scontato. Leggiamo senza battere ciglio di stazioni orbitali permanenti e di navicelle spaziali che vengono riutilizzate per poter abbattere i costi delle missioni: tutto ciò non ci meraviglia più, poiché abbiamo potuto vedere con i nostri occhi, sui giornali e in televisione, astronauti in volo nello spazio e sonde automatiche atterrare su altri pianeti. Accettiamo i concetti di viaggio spaziale e contatti interplanetari perché abbiamo potuto sentire con le nostre orecchie un mortale di nome Neil Armstrong, comandante della navetta spaziale Apollo 11, raccontare alla radio perché tutto il mondo potesse sentirlo il primo
attcrraggio di un uomo su un altro corpo celeste, la Luna: Houston ! Qui Tranquillity Base. I’ Aquila è atterrata!
Aquila non era soltanto il nome in codice del modulo lunare, ma anche l’epiteto con cui veniva chiamata la navetta spaziale Apollo 11 e persino il soprannome con il quale gli astronauti erano fieri di essere identificati. Anche il Falcon volò nello spazio e atterrò sulla Luna.
Nell’immenso Air and Space Museum dello Smithsonian Institution di Washington si possono vedere e toccare le navicelle che furono effettivamente inviate nello spazio e quelle che fecero solo da supporto al programma spaziale americano. In una sezione speciale dove, con l’aiuto di tutte le attrezzature originali, viene simulato un atterraggio sulla Luna, il visitatore può tuttora sentire un messaggio registrato dal suolo lunare: O.K. Houston. Il Falcon è sulla piana di Hadley! Dopodiché il Centro spaziale di Houston annunciava al mondo: «Era un esultante Dave Scott che parlava dall’Apollo 15 sulla piana di Hadley». Fino a qualche decennio fa, se avessimo detto che un comune mortale, dopo aver indossato speciali indumenti, si sarebbe legato nella parte anteriore di un oggetto di forma allungata e sarebbe stato “sparato” lontano dalla faccia della Terra, ci avrebbero preso per pazzi. Uno o due secoli fa, un concetto di questo genere non sarebbe mai venuto neanche alla mente, poiché non vi era nulla, nell’esperienza o nella conoscenza umana, che avrebbe potuto determinare, neanche alla lontana, una tale fantasia. Eppure, come abbiamo appena visto, gli Egizi 5.000anni fa non avevano alcuna difficoltà a immaginare come tutto questo accadesse al faraone defunto: egli viaggiava verso un luogo di lancio situato a est dell’Egitto; entrava in un groviglio di gallerie e camere sotterranee; passava tranquillamente vicino a strutture radioattive. Si vestiva con tutto l’equipaggiamento di un astronauta, entrava nella cabina di un veicolo volante e sedeva, legato, tra due divinità. Poi, quando si aprivano le doppie porte e al di là di esse si vedeva il cielo albeggiare, si accendevano i motori e il veicolo si trasformava nella Scala Celeste con la quale il faraone poteva raggiungere la dimora degli dèi sul loro «Pianeta di milioni di anni». Su quale schermo televisivo gli Egizi avevano dunque visto accadere queste cose, tanto da crederle tutte davvero possibili? Poiché non risulta che avessero il televisore in casa, le loro conoscenze non possono che derivare da una testimonianza diretta: essi dovevano aver visto con i loro occhi il sito di lancio, le apparecchiature, e perfino gli astronauti. Solo che gli astronauti non erano terrestri che uscivano dal loro pianeta; erano piuttosto abitanti di un altro pianeta che venivano sul pianeta Terra. Grandi amanti dell’arte, gli antichi Egizi dipingevano sulle loro tombe ciò che avevano visto e vissuto durante la vita terrena. I dettagliati disegni dei corridoi e delle camere sotterranee del Duat provengono dalla tomba di Seti I. Una raffigurazione ancora più strabiliante è stata trovata sulla tomba di Huy, vice ré di Nubia e della penisola del Sinai durante il regno del famoso faraone TutAnkhAmon.
Decorata con scene di ambienti, oggetti e persone dei due tenitori di cui era viceré, la sua tomba ha tramandato fino a noi la vivida e realistica rappresentazione di una navicella spaziale: il corpo del veicolo è racchiuso in un silo sotterraneo, mentre la parte superiore, con il modulo di comando, è sopra il livello del terreno.
La navicella è suddivisa in più scomparti: in quello inferiore due persone armeggiano con tubi e leve; sopra di loro vi è una fila di strutture circolari. In sezione, si vede che il silo è circondato da celle tubolari che servono per lo scambio di calore o per qualche altra funzione legata al trasporto di energia. Sopra il livello del terreno, la base’semisferica del piano superiore appare danneggiata, quasi bruciacchiata, forse dall’impatto con l’atmosfera della Terra.Il modulo di comando, grande abbastanza per contenere tre o quattro persone, ha una forma conica e diversi “fori di osservazione “.verticali sul fondo. La cabina è circondata da fedeli in adorazione, tra palme da dattero e giraffe. La parte sotterranea è decorata con pelli di leopardo, e ciò fornisce un legame diretto con alcune fasi del viaggio del faraone verso l’immortalità: la pelle di leopardo, infatti, era la veste simbolicamente indossata dai sacerdoti Shem durante la cerimonia dell’apertura della bocca e dagli dèi che trainavano il faraone attraverso «il sentiero segreto del luogo nascosto» del Duat. Tale simbolismo sembra dunque rafforzare la corrispondenza tra il viaggio del faraone e la navicella a razzo nel silo sotterraneo. Come risulta evidente dalla lettura dei Testi delle Piramidi, il faraone, nel suo viaggio verso l’Aldilà eterno, compiva un percorso che riprendeva quello degli dèi. Ra e Seth, Osiride e Horus e altri dèi erano saliti al cielo in questo modo. Tuttavia gli Egizi credevano che, prima ancora, con questa stessa barca celeste fossero scesi sulla Terra i primi Grandi Dèi. Nella città di An (Eliopoli), il più antico centro di culto dell’Egitto, il dio Ptah costruì una struttura speciale, in cui tutto il popolo egiziano poteva vedere e onorare una vera capsula spaziale! L’oggetto segreto il BenBen era custodito nell’HetBenben, il «tempio del Benben». Dal segno geroglifico che identificava il nome di questo luogo sappiamo che la struttura appariva come una massiccia torre di lancio al cui interno vi era un razzo puntato verso il cielo . Secondo gli antichi Egizi, il BenBen era un grosso oggetto che, partito dal Disco Celeste, era poi arrivato sulla Terra, Era la «Camera Celeste» con cui il grande dio Ra in persona era atterrato sul nostro pianeta; il termine Ben (letteralmente “ciò che fluì fuori”) esprimeva anche i concetti di “splendere” e “puntare al cielo”. Un’iscrizione posta sulla stele del faraone PiAnkhi (vedi H.K. Brugsch, Dictionnaire Géographique de l’Ancienne Egypte) così diceva: II re PiAnkhi salì alle stelle, verso la grande finestra, al fine di vedere il dio Ra nel BenBen Il re in persona, da solo, spinse il chiavistello e aprì la doppia porta. Vide allora suo padre Ra nello splendido tempio di HetBenben. Vide il Maad, la barca di Ra; e vide Sektet, la barca dell’Aten. Presso il tempio, ci dicono gli antichi testi, vi erano due gruppi di dèi che lo sorvegliavano e ne avevano cura. Il primo gruppo era formato da coloro «che stanno fuori daìl’HetBenben», anche se avevano comunque il permesso di entrare nelle parti più sacre del tempio, poiché era loro compito ricevere le offerte dai pellegrini e portarle al tempio. L’altro gruppo era composto dai guardiani veri e propri, non soltanto del BenBen stesso, ma anche di tutte «le cose segrete di Ra che stanno dentro YHetBenben». Gli Egizi erano soliti compiere dei veri e propri pellegrinaggi a Eliopoli, per rendere omaggio e recitare preghiere al BenBenprobabilmente con un fervore religioso simile a quello con cui i fedeli musulmani vanno da pellegrini alla Mecca, per pregare presso la Qa’aba (una pietra nera considerata una copia della «Camera Celeste» di Dio). Presso il tempio vi era una fontana o una sorgente, nota per le sue acque che avevano il potere di guarire gli ammalati, specie per ciò che aveva a che fare con problemi di virilità e fertilità. Il termine Ben e il corrispondente segno geroglifico acquistarono nel tempo proprio una connotazione legata ai concetti di virilità e riproduzione e ciò fu probabilmente all’origine del significato di “progenie maschile” che Ben ha in ebraico. Accanto al potere di restituire virilità e capacità riproduttiva, il tempio acquisì ben presto anche il potere di ringiovanire: questo, a sua volta, diede origine alla leggenda dell’uccello detto Ben, che i Greci che avevano visitato l’Egitto chiamavano Fenice (“Phoenix”). Secondo tale leggenda, la Fenice era un’aquila con un piumaggio in parte rosso e in parte dorato; ogni 500 anni, quando stava per morire, andava a Eliopoli e in qualche modo risorgeva dalle ceneri di se stessa (o di suo padre). Eliopoli e le sue acque capaci di guarire furono venerate fino all’inizio dell’era cristiana; le tradizioni locali affermano che quando Giuseppe e Maria fuggirono dall’Egitto con il bambino Gesù, si fermarono presso la sorgente del tempio. Il tempio di Eliopoli fu distrutto diverse volte da invasori nemici: oggi non ne rimane nulla, e nemmeno il BenBen è giunto fino a noi. Sui monumenti egiziani, però, lo si trova raffigurato come una struttura conica all’interno della quale vi è un dio. E in effetti gli archeologi hanno trovato un modello in scala del BenBen, dove si vede appunto un dio presso la porta, nell’atto di accogliere benevolmente qualcuno.
La vera forma di questa «Camera Celeste» era probabilmente quella che appare sulla tomba di Huy ; il fatto che i moderni moduli di comando cioè le capsule in cui si trovano gli astronauti, poste in cima alla navetta spaziale al momento del lancio, e con cui poi gli astronauti tornano sulla Terra appaiano così simili a l BenBen non può che celare un’analogia di scopo e funzione.
Se il BenBen è andato perduto, non c’è qualche altra prova concreta e non semplici disegni o modelli in scala di ciò che conteneva il tempio di Eliopoli? Abbiamo visto che, secondo i testi egizi, vi erano altre «cose segrete» di Ra messe in mostra o custodite nel tempio. Nel Libro dei Morti nove oggetti collegati al segno geroglifico di Shem erano rappresentati nella sezione corrispondente al tempio di Eliopoli: potrebbe dunque essere che vi fossero effettivamente altri nove oggetti legati allo spazio, o magari parti di una navetta spaziale, contenuti nel tempio. Di uno di questi oggetti gli archeologi hanno forse trovato una copia.
Si tratta di uno strano oggetto circolare pieno di curve e scontornature , che ha lasciato perplessi gli studiosi fin dalla sua scoperta, avvenuta nel 1936. N. E importante considerare che l’oggetto fu rinvenuto, in di rame» nellatomba del principe Sabu, figlio del re Adjib della Prima Dinastia. È certo, quindi, che l’oggetto fu posto nella tomba verso il 3100 a.C: forse venne costruito prima, ma certamente non dopo. Parlando dei reperti rinvenuti nell’area settentrionale di Sakkara (appena a sud delle grandi piramidi di Giza), Walter B. Emery (Great Tombs of thè First Dinasty) descriveva l’oggetto come «un vaso di scisto a forma di boccia» e ammetteva che «nessuna delle ipotesi proposte per spiegare la strana forma di questo oggetto pare soddisfacente». L’oggetto era ritagliato da un blocco di scisto, una roccia stratiforme, che si sfalda facilmente: se dunque avesse avuto una qualche funzione pratica, questo oggetto si sarebbe subito rotto. L’unica spiegazione possibile era che questa pietra particolare fosse stata scelta proprio per la sua struttura irregolare e delicata, facile da tagliare e da lavorare. E ciò ha portato altri studiosi, come Cyril Aldred (Egypt to thè End of thè OldKingdom), a concludere che forse questo oggetto di pietra «era un’imitazione di una forma originariamente fatta di metallo». Ma quale metallo poteva essere utilizzato nel quarto millennio avanti Cristo per ottenere quell’oggetto, la cui costruzione richiedeva un accurato procedimento di affilatura?
Chi poteva avere una tale abilità nel lavorare il metallo, tanto da creare una forma così delicata e strutturalmente complèssa? E, soprattutto, a quale scopo? Anche un esame tecnico dettagliato non gettò molta luce sull’impiego e sull’origine di quell’oggetto. Di forma rotonda, con un diametro di una sessantina di centimetri e uno spessore massimo di dieci centimetri , esso era chiara mente fatto per essere inca strato in un fusto centrale e ruotare sul suo asse.I suoi tre strani tagli curvi facevano pensare che esso potesse es sere immerso in un liquido durante la rotazione. Dopo il 1936 la questione fu accantonata, finché improvvisamente, nel 1976, ebbi un’intuizione, leggendosu una rivista tecnica che in California, per conto del programma spaziale americano, era stato messo a punto un tipo particolare di volano. Un sistema di questo genere, attac cato a un asse rotante di una macchina o di un motore, era utilizzato da meno di due secoli per regolare la velocità di un macchinario, oltre che per accumulare energia in vista di un potente scatto, come in una pressa metallica (o più recentemente nell’aviazione). Di norma, i volani avevano margini piuttosto spessi, poiché l’energia si accumulava proprio nella circonferenza. Negli anni Settanta, invece, gli ingegneri della Lockheed Missile & Space Company elaborarono un progetto che andava nella direzione opposta: un volano con bordi sottili, più adatto a risparmiare energia nei treni a transito di massa e ad accumulare energia negli autobus elettrici. A proseguire la ricerca fu poi la Airesearch Manufacturing Company; il modello che essi elaborarono senza tuttavia portarlo del tutto a termine doveva essere ermeticamente chiuso all’interno di una struttura piena di lubrificante. II fatto strabiliante è che questo rivoluzionario tipo di volano , che nel 1978 (d.C.) era ancora in fase di elaborazione nel campo aeronautico, assomigliava come una goccia d’acqua all’oggetto misterioso costruito nel 3100 a.C. !
Dov’è l’originale metallico di questo antico volano? Dove sono gli altri oggetti che dovevano trovarsi all’interno del tempio di Eliopoli? E poi, dove si trova lo stesso BenBenì Come molti altri oggetti dell’antichità che oggi non possediamo più, ma la cui esistenza ci è stata tramandata senza ombra di dubbio, anche questi possono essere scomparsi per i motivi più diversi: distrutti da calamità naturali o guerre, rubati e portati lontano magari come bottino di guerra, o messi al sicuro in un luogo nascosto che col tempo è stato poi dimenticato. Forse sono stati riportati in cielo; o forse sono ancora fra noi, nella cantina di qualche museo, dimenticati o comunque non riconosciuti per quello che effettivamente sono. Oppure come potrebbe suggerire la leggenda della Fenice che collega Eliopoli
e l’Arabia potrebbero essere nascosti sotto la camera chiusa della Qa’aba alla Mecca … Si può presumere, tuttavia, che la distruzione, la scomparsa o il ritiro dei sacri oggetti dal tempio sia avvenuta durante il cosiddetto Primo Periodo Intermedio: fu un’epoca di grande caos e totale anarchia, e sappiamo che proprio allora vennero distrutti i santuari di Eliopoli. Fu forse in quel periodo che Ra lasciò il suo tempio a Eliopoli e divenne Amon, il «dio nascosto». Quando fu restaurato l’ordine, dapprima nell’Alto Egitto, sotto l’Undicesima Dinastia, fu stabilita la capitale a Tebe e il dio supremo fu chiamato Amon (o Amen). Il faraone Mentuhotep (NebHepetRa) costruì un grande tempio vicino a Tebe, lo dedicò a Ra e vi mise sopra un grande «pyramidion» che doveva rappresentare la Camera Celeste di Ra.
Poco dopo il 2000 a.C, quando cominciò il regno della Dodicesima Dinastia, l’Egitto fu riunificato e fu finalmente riportato l’ordine in tutto il Paese. Il primo faraone della dinastia, AmenEmHat I, mise mano immediatamente alla ricostruzione dei templi e santuari di Eliopoli, che tornò dunque in auge come centro religioso; nessuno può dire con certezza, tuttavia, se vennero riportati anche gli oggetti che un tempo erano contenuti in quei templi, o magari solo delle copie di essi. Il figlio di AmenEmHat I, SenUsert (KheperKaRa) il Sesostris o Sesonchusis di cui parlano gli storici greci fece costruire di fronte al tempio due enormi colonne in granito, alte più di venti metri, e vi fece porre in cima una copia in scala della Camera Celeste di Ra un pyramidion, rivestito d’oro o di rame bianco (il cosiddetto “electrum”).
Uno di questi obelischi si trova tuttora nel punto in cui fu costruito circa 4.000 anni fa; l’altro obelisco, invece, venne distrutto nel XII secolo d.C. Nell’antica Grecia queste colonne venivano chiamate obelischi, cioè “lance appuntite”; gli Egizi, invece, le chiamavano «Raggi degli dèi». La maggior parte di esse venne costruita quasi sempre in coppia davanti ai portali dei templi durante la diciottesima e diciannovesima dinastia (alcune finiranno poi a New York, a Londra, a Parigi, a Roma). Per ammissione degli stessi faraoni, questi obe lischi venivano fatti co struire allo scopo di «ot tenere [dagli dèi] il dono della vita eterna», e ciò perché gli obelischi rappresentavano
con la pietra quello che gli antichi faraoni avevano visto nel Duat, nella Montagna Sacra: le navicelle spaziali degli dèi . Anche le attuali pietre tombali, del resto, che recano inciso il nome del defunto perché possa essere ricordato per sempre, non sono forse degli obelischi in miniatura? Si tratta appunto di un’usanza che affonda le sue radici nell’epoca in cui gli dèi e le loro navicelle spaziali erano una realtà.
Il termine con il quale gli Egizi indicavano questi esseri celesti era NTR, che nelle lingue dell’antico Medio Oriente significava “uno che osserva”. Il segno geroglifico per Neter aveva questo aspetto come tutti i geroglifici, anche questo doveva rappresentare, in origine, un oggetto reale, visibile: gli studiosi hanno proposto le interpretazioni più varie, da un’ascia con un manico molto lungo fino a un’insegna o una bandiera. Margaret A. Murray The Splendo? That Was Egypt) avanzò un’ipotesi decisamente più innovativa: partendo dalla constatazione che gli oggetti in ceramica del periodo predinastico erano adornati da disegni di barche sulle quali svettava un vessillo formato da un palo con due pennoni, concluse che «il palo con due pennoni divenne il segno geroglifico per indicare Dio». L’aspetto interessante di questi primi disegni è che essi sembrano rappresentare barche che arrivano da una terra straniera. Quando nel disegno compaiono delle persone, si tratta sempre di individui seduti che remano agli ordini di un capo di solito molto alto, caratterizzato da un elmetto da cui fuoriescono delle corna, segno distintivo di un Neter. Sul piano dell’iconografia, dunque, gli Egizi mostrarono fin dall’inizio una chiara consapevolezza che i loro dèi provenivano da un altro luogo.
Ciò confermava le leggende sull’origine dell’Egitto, quando il dio Ptah, venuto dal sud, avendo trovato l’Egitto sommerso dall’acqua, costruì argini e dighe e compì grandiose opere di bonifica, che resero finalmente abitabile quella regione.
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