Ripulire il mare dagli sversamenti di petrolio con dei batteri

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I batteri mutati che mangiano il petrolio. Una soluzione innovativa per ripulire il suolo e il mare dalle fuoriuscite di petrolio: insegnare ai batteri locali a digerirlo.

Se i disastri ambientali fossero libri, gli sversamenti di petrolio sarebbero I promessi sposi: un grande classico per tutte le stagioni, che dopo anni e anni ha ancora tanto da insegnarci. Katherine French della University of California, Berkeley, è un’appassionata del genere: secondo lei, «al momento non ci sono metodi efficaci per ripulire il suolo e il mare dal petrolio». Al momento, appunto: in uno studio pubblicato su bioRxiv, French e i suoi colleghi raccontano i risultati di un esperimento che hanno condotto su un gruppo di batteri per insegnare loro come si fa a digerire il petrolio.

Una fuoriuscita di petrolio. | dimitris_k/Shutterstock
Una fuoriuscita di petrolio. | dimitris_k/Shutterstock

Extra DNA. L’idea di French è la seguente: ci sono molti batteri che producono enzimi in grado di digerire gli idrocarburi e spezzarli nelle loro componenti elementari, di fatto “disattivandoli”; il problema è che raramente questi batteri si trovano nelle zone dove sono avvenute fuoriuscite. Una soluzione potrebbe essere importare i batteri “validi”: il rischio, però, è che non riescano ad adattarsi al nuovo ambiente e muoiano prima di poter fare del bene. French ha così deciso di sfruttare i plasmidi, pezzi extra di DNA che tutti i batteri possiedono e che vengono attivati per svolgere compiti precisi. Il team di Berkeley ha creato dei plasmidi contenenti i geni per la produzione di cinque diversi enzimi in grado di distruggere gli idrocarburi, e li ha inseriti in un ceppo di Escherichia coli.

Tutti morti? I batteri addizionati sono stati poi liberati in un campione di suolo intriso di petrolio, e… sono morti nel giro di cinque giorni. Non senza aver prima trasmesso i plasmidi anti-petrolio ad altre specie di batteri locali, che hanno cominciato a digerire gli idrocarburi e ne hanno dimezzato la quantità presente nel suolo nel giro di due mesi. Il metodo, dunque, sembra funzionare, ma lo studio di French è ancora in fase di peer review, e ha già fatto alzare qualche sopracciglio – qualche collega ha fatto notare che liberare batteri geneticamente modificati in natura potrebbe non essere una buona idea, nonostante tutto il bene che potrebbero fare.

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