Quanto costa (all’ambiente) vestirsi. L’industria dell’abbigliamento ha un peso notevole sull’ambiente: inquina, consuma fiumi d’acqua e divora petrolio. C’è differenza tra tessuti sintetici e naturali? Dove ci porta la ricerca? La maggior parte di noi indossa vestiti che hanno un forte impatto sull’ambiente in termini di inquinamento e impiego di acqua ed energia.
Una delle nostre necessità fondamentali – i vestiti – sono anche una delle fonti di maggiore inquinamento sotto molti e a volte ignorati punti di vista. Eppure l’industria dell’abbigliamento a livello globale genera emissioni di anidride carbonica stimate in un miliardo e 200 milioni di tonnellate all’anno: più dell’intero traffico aereo mondiale. Per i nostri abiti, la produzione (prima) e la “manutenzione” (dopo) costa enormi quantità di acqua, energia (anche per la depurazione della acque reflue, industriali e domestiche) e risorse non rinnovabili.
La questione ha assunto dimensioni enormi e si fa sempre più seria: per raccontarla, la Ellen MacArthur Foundation, costituita nel 2010 per promuovere l’interessante concetto di economia circolare, ha realizzato uno studio sull’impatto ambientale dell’abbigliamento in tutti i suoi aspetti.
Vestiti a vita breve. Uno degli elementi messi in rilievo è il fatto che sempre più persone sul pianeta indossano vestiti che hanno una durata di vita sempre più breve.
Nella maggior parte dei casi questi abiti sono prodotti in Asia o comunque in luoghi molto lontani da chi li indosserà, e questo richiede una enorme quantità di energia anche solo per il trasporto.
Nel contempo, ogni secondo che passa viene buttato via l’equivalente di un camion carico di vestiti, che finiscono in discarica o bruciati.
La maggior parte degli indumenti più comuni sono oggi realizzati in sintetico, soprattutto poliestere, che è un composto della plastica (e non si degrada dopo lo smaltimento): a ogni lavaggio questi prodotti rilasciano una grande quantità di minuscole fibre singolarmente invisibili e praticamente indistruttibili che prima o poi finiscono in mare.
Falso verde, verde pallido e quasi verde. Il cotone e altre fibre naturali a base di cellulosa vegetale si degradano, ma non per questo sono una scelta più ecologica se si considera l’intera filiera.
Cavalcando l’onda green che attraversa il mondo occidentale, industrie, università e centri di ricerca studiano soluzioni alternative anche “grattando il fondo del barile” (letteralmente): è per esempio il caso di Gary Cass, ricercatore dell’Università di Perth (Australia), arruolato da un marchio di abbigliamento femminile per la sua idea di produrre tessili a partire dai residui di lavorazione di vino e birra. Alcuni esemplari di abiti alla birra erano stati presentati all’Expo di Milano, nel 2015: erano giusto prototipi, estremamente fragili, ma ora sembra che Cass, cambiando “materia prima” – da vino&birra a noci di cocco – e con l’aggiunta di un mix di cellulosa e acetobacter, abbia ottenuto una fibra simile al rayon (che si ottiene con una complessa lavorazione della cellulosa del legno o del cotone) robusta, lavorabile e commercializzabile.
Al momento sembra anche molto interessante la ricerca di Bolt Threads per una “seta artificiale” più elastica e resistente all’acqua della seta naturale, utilizzando zucchero, acqua e lievito geneticamente modificato. Ci sono poi Qmilk, che produce fibre da proteine del latte, e l’italiana Orange Fiber, che fa tessili dagli scarti degli agrumi…
Tutte splendide ricerche ed esperienze, ma con molta strada da fare prima di poter parlare di una vera alternativa commerciale (e popolare) alle fibre sintetiche, “forti” di decenni di sviluppo tecnologico e di esasperata ottimizzazione dei sistemi di produzione.
Back to petroleum. Infine, un ulteriore e non secondario aspetto del peso ambientale del nostro abbigliamento più comune: le lavorazioni speciali, quelle che portano ai tessuti tecnici. Un esempio per tutti è l’impermeabilizzazione, che in molti casi implica l’uso di sostanze fluorochimiche e dei relativi sottoprodotti tossici. Secondo Richard Blackburn, dell’Università di Leeds (UK), allo stato attuale delle cose per impermeabilizzare un capo di abbigliamento sarebbe quasi meglio utilizzare derivati degli idrocarburi, addirittura meno inquinanti dei prodotti chimici.
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