Petrolio a Tempa Rossa sotto scacco: viaggio nel Texas d’Italia. Là sotto, nel giacimento Tempa Rossa, c’è l’iradiddìo di petrolio e di metano. Sono bastati pochi giorni di prove di estrazione ai primi del mese per capire che il petrolio c’è; ce n’è tantissimo; ce n’è più di quanto si immaginasse.
Denso come maionese, ma maionese nerissima da cui lentamente blobbano le bolle di gas. Il petrolio è sgorgato a 103 atmosfere, 105 bar, senza bisogno di pompaggi.
Potrebbe il giacimento essere un’occasione di riscatto per la valle del Sauro, in Basilicata? Potrebbe dare nuovo benessere e rallentare l’abbandono della valle, così come è accaduto in val d’Agri con il petrolio dell’Eni?
Forse no, forse il giacimento enorme della Total, nascosto nel ventre della montagna che domina il paese di Corleto Perticara (Potenza), non porterà prospettive di crescita per tutti.Ma di sicuro quel petrolio ancora da estrarre è lo strumento con la quale il sindacato e i politici sotto scacco elettorale in queste settimane cercano di strappare quanto più possibile dalla Total, per esempio cercando di conquistare posti di lavoro e i consensi elettorali che vi sono legati.
Il 4 settembre la Regione Basilicata ha ordinato la fermata immediata del giacimento che stava facendo le prove di “oil in”, cioè di estrazione, di taratura e di prova degli impianti.
Ogni mese di fermata dell’impianto costa 160 milioni.
Quando potrà ripartire Tempa Rossa? Forse il mese prossimo.
E l’annuncio di avvio definitivo del giacimento Tempa Rossa con ogni probabilità sarà diramato in tono sommesso, a bassa reattività e in lingua francese dalla sola casamadre di Parigi, per obblighi di mercato, in modo da irritare il meno possibile un Governo italiano già disturbato da questioni di consenso come Tap e Tav.
La prova riuscita bene
Il giacimento GorgoglioneTempa Rossa, scoperto nel 1989 dall’Enterprise Oil, oggi è della Total (operatore con il 50%) insieme con la Shell e la Mitsui.
Quasi sicuramente contiene più dei 480 milioni di barili stimati.
Il giacimento è alla profondità di 5 chilometri sotto la montagna di Corleto Perticara, e la cima della montagna è stata spianata per costruire il colossale centro oli Tempa Rossa, un impianto di prima raffinazione.
Nella foto in alto che apre questo articolo, foto che ho scattato con il telefonino, si vedono il colossale centro oli Tempa Rossa sulla cima della montagna, a sinistra la torcia alta 130 metri e in basso a destra il piazzale del pozzo petrolifero Gorgoglione Uno.
Due settimane fa c’è stata la prova di estrazione dal giacimento profondo e di funzionamento degli impianti sulla montagna, una prova riuscita a metà.
Il test è riuscito a dimostrare che nella profondità delle rocce c’è petrolio a vagonate.
E al tempo stesso il test è riuscito a dimostrare alla superficie quanto sotto scacco è la Total.
Ma ecco la storia.
A fine agosto la Total ha avuto il permesso dall’ufficio minerario Unmig del ministero dello Sviluppo economico.
È una cosa normale: come da prassi comune, la Total ha avvertito le autorità e pensava di non avere bisogno di altri adempimenti per condurre la prova tecnica “oil in” degli impianti di profondità e di superficie.
La Total ha aperto i rubinetti e le valvole che lasciano sgorgare il greggio dal pozzo Gorgoglione Uno e lo portano fino all’adiacente e colossale centro oli Tempa Rossa.
Non è il primo greggio estratto: in via sperimentale, dai pozzi sono state estratte finora circa 5mila tonnellate di petrolio, mandate con autobotti alla raffineria Eni di Taranto per le analisi di laboratorio e le prove di raffinazione.
La sorpresa è stata forte. Dal sottosuolo il petrolio sgorgava dritto e veloce alla pressione di 105 bar ovvero 103 atmosfere. La qualità del greggio, piuttosto denso e pesante, era esattamente quella prevista. La portata era perfetta a 10mila barili al giorno.
L’impianto filava regolare come un orologio svizzero. Il labirinto di valvole, condotte, attuatori, compressori, flange, sensori rispondeva alla perfezione.
Il petrolio verso i serbatoi di stoccaggio, il gas a bruciare verso la fiaccola.
Le emissioni, i sensori della qualità dell’aria rilevavano emissioni più contenute rispetto al previsto.
E sulla torcia, il traliccio pitturato di bianco e di rosso altissimo 130 metri sulla montagna, fiammeggiava potente il metano. Questo accadeva ai mille metri di altitudine del centro oli Tempa Rossa.
Quando partiranno anche gli altri pozzi già pronti e tenuti sigillati di Tempa Rossa Tr1 e Tr2, i pozzi Gorgoglione Gg1 e Gg2, il pozzo Tempa d’Emma Te1 e il Perticara Pt1 saranno altri 60mila barili di greggio al giorno.
E poi altri 7mila barili al giorno dai futuri pozzi Tempa Rossa Nord Trn e Gorgoglione Est Gge.
E questa è la parte riuscita bene della prova d’impianto “oil in”.
La prova riuscita male
Ora racconto la parte sbagliata del test.
In quei pochi giorni di test nel ventre della terra e negli impianti sulla cima del monte, nel frattempo giù nel fondovalle, a Corleto Perticara, il vento è girato e ha portato nelle case un’aria greve, solforosa, difficile da apprezzare.
Il centro oli Tempa Rossa sulla montagna ruggiva nell’acciaio, ma soprattutto quella torcia alta 130 metri sulla montagna fiammeggiava come una bandiera colossale, si vedeva quella fiamma da ogni parte.
La notte, luce.
Luce e odoracci.
La cittadinanza era infastidita, e giustamente. Telefonate di protesta, sindaci imbufaliti; e così la Regione martedì 4 settembre ha emanato una diffida a spegnere tutto.
Alle 15,40 di quel martedì la Total ha spento l’impianto e non l’ha più riacceso. Come scrivevo prima, ogni mese di fermata costa 160 milioni.
Il test d’avviamento degli impianti è riuscito dal punto di vista tecnico ma è stato un fallimento colossale dal punto di vista del rapporto con cittadini e istituzioni.
Il motivo ufficiale
Il motivo ufficiale della diffida con cui la Regione aveva bloccato l’impianto è che, prima di avviare la prova del centro oli Tempa Rossa, la Total avrebbe dovuto adempiere ad alcuni obblighi, come per esempio avrebbe dovuto allestire la rete di controllo ambientale e avrebbe dovuto consegnare alla prefettura di Potenza il piano d’emergenza previsto per gli impianti a “rischio Seveso”.
Lo ha ripetuto anche l’assessore regionale all’Ambiente, Francesco Pietrantuono, in diverse interviste ai giornali lucani. Dice l’assessore alla Gazzetta del Mezzogiorno: «Sul piano di sicurezza manca ancora il benestare della Prefettura».
Nei vari documenti erano state imposte alla Total meno di 30 prescrizioni. In maggio, quando ormai si stavano stringendo i bulloni per avviare l’impianto completato, la Regione Basilicata ha imposto più di 100 nuovi obblighi: per l’esattezza ha imposto 109 prescrizioni.
Nove centraline di rilevazione sismica sono già pronte e funzionanti ma alcuni Comuni della zona non danno la licenza edilizia per la posa delle ultime tre centraline.
La Total aveva già dato alla prefettura di Potenza il piano d’emergenza, e la prefettura aveva risposto che il piano d’emergenza doveva essere analizzato dall’Arpa Basilicata, la quale Arpa Basilicata l’ha ricevuto dalla Total ma non ha ancora emanato alcun atto in proposito.
Così finché l’agenzia regionale Arpa non adempirà l’obbligo e finché i sindaci non daranno la licenza edilizia, la Total sarà mantenuta nella condizione di essere dichiarata inadempiente e di conseguenza ricattabile.
Il motivo reale
Il motivo reale della diffida della Regione e di questi obblighi aggiuntivi è che quando l’impianto sarà in marcia regolare sarà difficile strappare concessioni alla scorbutica compagnia petrolifera, poco propensa a negoziare alcunché.
Sulla scorbutaggine della Total e in generale sul caratteraccio fumantino del vertice italiano della compagnia francese ne sanno qualcosa i giornalisti scacciati in malo modo ai cancelli degli impianti quando la Total, quest’estate, aveva indetto la manifestazione “porte aperte” invitando la popolazione. Porte aperte a tutti tranne a giornalisti, operatori e fotografi respinti ai cancelli dell’impianto.
Quindi i sindacalisti e politici locali cercano di strappare adesso, in queste settimane, quante più concessioni possibile, finché la Total è in debolezza negoziale.
Più avanti dettaglierò quale tipo di concessioni vengono chieste alla Total.
Come si cercano e si assegnano i giacimenti in Italia
A differenza di altri Paesi, in Italia i giacimenti di greggio e di metano nel sottosuolo appartengono allo Stato e all’intera collettività, non ai singoli proprietari che ne posseggono la superficie.
Lo Stato non sfrutta in prima persona il sottosuolo ma invece ne concede lo sfruttamento a patto di condividerne i benefici.
In Italia al 31 dicembre scorso erano in attività
• 96 permessi di ricerca di giacimenti (72 dei quali in terraferma)
• 200 concessioni di sfruttamento dei giacimenti (133 in terraferma).
Tranne le aree vietate, come i parchi o le acque costiere, tutta l’Italia può essere oggetto di ricerca di giacimenti e di concessione per lo sfruttamento.
In altri Paesi, come in Norvegia, lo Stato mette in gara tra gli investitori lotti di territorio. Invece in Italia il principio è diverso: devono essere gli investitori a chiedere un’istanza di ricerca e poi la concessione di sfruttamento.
Il primo passo è proporre un’istanza di ricerca in un’area, istanza presentata al ministero dello Sviluppo economico da chi vuole studiare il sottosuolo per cercare la presenza di giacimenti.
Ottenuto il permesso di ricerca, se viene scoperto un giacimento viene presentata l’istanza di concessione per lo sfruttamento.
In genere, dal primo progetto di ricerca fino all’individuazione di un giacimento può passare una dozzina di anni di lavoro e soprattutto di burocrazia cartacea.
Sono decine le compagnie attive nella ricerca e nello sfruttamento; tra le più presenti spiccano l’Eni, l’Edison, la Total, la Gas Plus.
La concessione costa un canone modesto, che dipende dall’area interessata, che può aggirarsi sui 2-3mila euro l’anno.
Al contrario lo Stato esige una “tariffa” molto alta di compartecipazione al valore del petrolio o del gas estratti. In genere vi sono royalty per il 7-10% del valore dei materiali estratti, cui si aggiungono compensazioni da condividere con le comunità del luogo in cui si trova il giacimento.
Nel caso di Tempa Rossa, tra le diverse compensazioni concordate fra la Regione Basilicata e la Total c’è tutto il gas che verrà estratto: tutto il metano del giacimento sarà donato pari pari gratis-et-amore-dei alla Basilicata.
La storia di Tempa Rossa
Era il dicembre 2008 quando per la prima volta arrivai a Corleto Perticara, un paese di 2.500 abitanti sul colle che divide la valle del fiume Sauro e il corso della Fiumarella. Era un giorno di pioggia finissima e persistente e di cielo basso e buio; il centro oli Tempa Rossa non esisteva ancora e il pozzo Gorgoglione Uno era ancora sperimentale.
Tutta la cima della montagna del petrolio era avvolta da una nuvola grigia che nascondeva ogni cosa, ogni uomo, ogni pensiero.
La località Tempa Rossa (significa più o meno Collerosso o Monterosso) è altrove, molti chilometri lontano, vicino a Gallicchio e ad Acinello della battaglia di briganti (poi la racconterò), e adesso spiego il motivo per cui è stato chiamato Tempa Rossa questo giacimento.
Negli anni ’80 la compagnia inglese Enterprise Oil aveva individuato un’area interessante per la ricerca di giacimenti e sulla mappa aveva disegnato attorno alla località Tempa Rossa un poligono immenso chilometri, chiedendo il permesso di cercarvi giacimenti.
Un altro rettangolone, enorme chilometri, fu disegnato attorno al paesino di Gorgoglione con un altro permesso di cercarvi giacimenti. Poi le due aree di ricerca Tempa Rossa e Gorgoglione sono state unite.
Nell’89 l’Enterprise aveva sondato con le ecografie il sottosuolo delle smisurate aree Gorgoglione e Tempa Rossa e aveva perforato un primo pozzo sulla montagna che divide Gorgoglione (Matera) da Corleto Perticara (Potenza): era il pozzo Gorgoglione Uno e ne sgorgò petrolio.
Poi trivellò un secondo pozzo sulla stessa montagna, Tempa d’Emma. Poi un terzo.
Tutti sulla stessa montagna lontana chilometri dalla località Tempa Rossa, ma ormai l’intero giacimento aveva preso il nome dalla concessione iniziale.
Poi i diritti sono passati all’Eni che li aveva ceduti alla Total nel 2002.
L’investimento previsto era di 1,6 miliardi di euro, ma la Total non conferma quanto ha speso finora.
La produzione quotidiana prevista è:
• 50mila barili di petrolio alla pressione di 105 bar,
• 230mila metri cubi di metano,
• 240 tonnellate di Gpl,
• 80 tonnellate di zolfo,
• 12.500 barili di acqua di falda.
Queste quantità estratte ogni giorno, domeniche comprese. Duemila barili di petrolio l’ora. Un barile di petrolio vale approssimativamente 70 dollari.
Sulla montagna dove c’è Tempa Rossa
Si stimano riserve per 480 milioni di barili, il solo pozzo di Tempa d’Erma ha stime per 180 milioni di barili. Finora sono state estratte 5mila tonnellate, portate con le cisterne alla raffineria Eni di Taranto per le analisi e le prove di raffinazione.
Sono stati perforati i due pozzi Tempa Rossa Tr1 e Tr2, i due pozzi Gorgoglione Gg1 e Gg2, i pozzi Tempa d’Emma Te1 e Perticara Pt1.
La Montagna di Caperino scende dal Montepiano e dalle Piccole Dolomiti fra boschi e dossi erbosi su cui pascolano greggi di pecore.
Il pozzo Gorgoglione Uno è sullo spartiacque della Montagna di Caperino che divide i paesi di Corleto (Potenza) e Gorgoglione (Matera), in località Acqua di Maggio, a mille metri di altitudine, tra le masserie Fabbricato e Petrini, verso Serra Dievolo.
A fianco al pozzo Gorgoglione Uno la Total ha sbancato il culmine della montagna ad Acqua di Maggio e ha costruito il centro oli Tempa Rossa, 11 ettari di condutture, impianti, ciminiere, piazzali.
E poi mulini a vento ovunque, che vorticano le braccia al vento. È il campo eolico Gorgoglione della Fri-El.
L’intera montagna è un formicaio di attività. Sulla cresta e poi sui versanti che scendono verso Corleto Perticara, verso Gorgoglione e verso Guardia Perticara («il paese delle case di pietra») ovunque inframmezzati dalle torri eoliche ci sono cantieri, grandi e piccoli, le spianate di cemento per i pozzi da realizzare Tempa Rossa Nord Trn e Gorgoglione Est Gge, i depositi di materiali, la posa di oleodotti e metanodotti tra i pozzi e il centro oli, le linee elettriche, la costruzione di strade d’accesso agli impianti, la perforazione per controllare la qualità delle acque profonde, le tubazioni di scarico.
Giù nel fondovalle nella zona industriale di Guardia Perticara è stato costruito il centro del Gpl, collegato con il centro oli Tempa rossa con un’altra conduttura sotterranea sul fianco della montagna.
Non c’è lato della montagna che non abbia qualche transenna color arancio cantiere, qualche ruspa in attività, qualche camion che ruggisce carico di terra, qualche braccio d’acciaio che posa tubi o piastre di calcestruzzo.
A giorni alterni
L’oleodotto scende dal centro oli in cima al monte e raggiunge l’oleodotto Eni sul fondovalle della val d’Agri che da Monte Alpi arriva fino alla raffineria di Taranto.
I due petroli, quello dell’Eni in val d’Agri e quello della Total di Tempa Rossa, sono molto diversi.
Leggero e fluido quello dell’Eni.
Denso, solforoso e cremoso quello che la Total vuole estrarre a Tempa Rossa. Sono due oli minerali troppo differenti per essere compatibili, per essere mescolati nello stesso tubo e per essere trattati a Taranto dagli stessi impianti di raffineria.
Così è stato concordato che l’oleodotto funzionerà a giorni alterni. Un giorno vi gorgoglierà il petrolio fluido della val d’Agri. Il giorno dopo vi scorrerà quello cremoso di Tempa Rossa.
Che benefici strappare
Il primo e più evidente beneficio già concordato fra la Regione Basilicata e la Total è il gas: tutto il metano del giacimento sarà donato alla Basilicata. Può bastare? No certo.
In Basilicata la situazione politica è opaca. Il presidente della Regione, Marcello Pittella, è agli arresti domiciliari più stretti e rigorosi perché accusato in un’inchiesta sulla Sanità. Se Pittella si dimettesse, partirebbe subito l’iter per le elezioni regionali. Però non si dimette dall’incarico politico, incarico che non può assolvere per la severa detenzione domestica, e in queste condizioni il rinnovo della Regione andrà a scadenza naturale, nei primi mesi dell’anno prossimo.
In ogni caso è già piena campagna elettorale.
Solamente adesso la Regione, i sindacati e i politici lucani hanno strumenti negoziali sulla Total che a impianto avviato non avrebbero più.
Ci sono 160 addetti alla sicurezza di leva locale che, ora che l’impianto è completato, verrebbero licenziati.
Una delle richieste è assicurare un paio di mesi aggiuntivi di assunzione affinché scatti il diritto all’assegno di disoccupazione.
La Total dice no, il sindacato minaccia nuovi scioperi per ottenere questo diritto perenne.
• Oppure, si potrebbe costruire in Basilicata un centro ricerche.
• Di più, si potrebbe costruire in Basilicata un centro ricerche sull’idrogeno.
• Meglio ancora, si potrebbe costruire in Basilicata un impianto di produzione di pannelli fotovoltaici.
E poi ci sono litigi infiniti sull’assunzione di 30 laureati selezionati dalla Total. È una storia da raccontare perché un misterioso volantino aveva anticipato i nomi dei futuri assunti. Come se fosse un concorso già assegnato a colpi di clientele.
Il volantino misterioso
Due settimane fa, il 30 agosto, la Total aveva annunciato di avere completato il percorso di selezione di 30 giovani laureati lucani da assumere.
Si trattava di un accordo con le istituzioni locali per ammorbidire il consenso della cittadinanza.
Ma quando si sono visti i nomi dei giovani assunti, i cittadini hanno confrontato le assunzioni con l’elenco dei nomi stampati in un misterioso volantino anonimo che da settimane veniva fatto girare nelle vallate attorno a Tempa Rossa.
Il volantino anticipava con esattezza i nomi di chi sarebbe stato assunto dalla Total.
E soprattutto — indignati i sindaci degli altri due Comuni adiacenti, cioè Gorgoglione e Guardia Perticara — soprattutto sono stati assunti giovani di Corleto Perticara, nei cui confine cadono i pozzi di petrolio e il centro oli Tempa Rossa.
Sono i segnali di come per molti (non per tutti) la preoccupazione suscitata da Tempa Rossa riguarda l’assicurarsi un posto di lavoro, non la preoccupazione generata dalla presenza ingombrante del centro oli, dei pozzi disseminati sulla montagna e delle condutture.
Poca reattività
La Total, come s’usa in questi casi, per avere un rapporto più scorrevole con i cittadini della zona finanzia qualche sagra e l’attività di qualche associazione ma senza il fervore sponsorizzativo dell’Eni a Viggiano, dell’Adriatic Lng per il terminale di rigassificazione di fronte ad delta del Po o della Tap nel Salento.
Nei paesi sulla valle del Sauro non c’è quella reattività contro trivelle e petrolio che ci si potrebbe aspettare.
Un sondaggio accurato può venire dal referendum no-triv che si era svolto nell’aprile 2016.
• In Italia su 46,7 milioni di elettori ci fu un’affluenza del 32,16% (l’86,44% dei quali contro le trivelle petrolifere).
• Nella reattiva Basilicata l’affluenza è stata più alta, pari al 50,16% con un raggiungimento virtuale del quorum (96,4% dei quali contro le trivelle petrolifere).
• Nella provincia di Potenza dove ci sono i colossali giacimenti petroliferi della val d’Agri (Eni) e di Tempa Rossa (Total) l’affluenza scende sotto il quorum con il 49,02% (il 96,11% dei quali contro le trivelle petrolifere).
• A Viggiano in val d’Agri (giacimenti Eni) si scende al 37,04% di voti validi mentre a Corleto Perticara (giacimenti Total) un ancora più modesto 29,17% di voti validi (il 91,84% dei quali erano contro le trivelle petrolifere).
In val Susa ogni angolo mostra la rabbia di molte persone contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione; invece nel cuore dell’area petrolifera a Corleto Perticara sembra non esistere alcuna contestazione evidente.
Nessun adolescente in tempesta ormonale ha scritto «No Oil» oppure «No Total» con l’uniposca; le uniche scritte che ho trovato sui muri di Corleto sono un «Vinceremo» e «Roma Doma» di èra fascista lungo via Lacava e un «Viva le cose strane» a pennarello su un intonaco in via Trieste.
Nessun lenzuolo sventola ai balconi con slogan di protesta; nessuna scritta con la bomboletta e nessun manifesto di carta sui contrafforti di calcestruzzo che avvolgono i tornanti o sulle spallette dei ponti.
Sui tabelloni di ferro arrugginito ci sono residui di annunci ufficiali (in piazza Plebiscito a Corleto Perticara è ancora esposto il risultato elettorale delle politiche del 2006) e sono stati ricoperti da altre affissioni i manifesti esposti dalla Total per invitare tutti (tranne i giornalisti) alle “porte aperte” nel centro oli.
Nemmeno i manifesti elettorali di movimenti tradizionalmente no triv mostrano un attivismo acceso contro la Total.
Il sindaco di Corleto Perticara è Antonio Massari, ritenuto dai “no oil” poco reattivo. Vediamo che cosa ha fatto esporre il sindaco alla bacheca del Palazzo degli Uffici in piazza del Plebiscito.
• Disposizioni sulla nuova carta d’identità elettronica.
• Le modalità per ritirare i bidoncini per il nuovo servizio di raccolta differenziata dei rifiuti.
• Il professor Luca Serianni terrà una conferenza sul tema «Dal dire al comunicare, la trasversalità della lingua italiana nei curricoli scolastici».
• Regole per un evento degli evangelici in piazza programmato per l’estate 2018.
• Divieto di transito sulla strada Sarappo-Pista da Sci.
E sull’enormità di quell’impianto colossale sul dorso della montagna?
Dall’albo pretorio del Comune qualcosa traspare:
• Annuncio di un incontro pubblico della Total con la cittadinanza (21 marzo scorso).
• Un divieto di transito sulla strada Crocecchia per la posa di un oleodotto.
I comitati nimby ci sono, ma poco evidenti. E sono attivi soprattutto lontano da Corleto Perticara e dal giacimento Tempa Rossa. Per esempio la marcia di protesta contro le perforazioni è in programma per il 29 settembre a Pisticci Scalo. Scomparso il sito associativo Ola Ambientalista, che aggregò molte proteste, oggi sono attivi sul web alcuni gruppi di attenzione come Analize Basilicata o Scanziamolescorie.
Per trovare un po’ di vivacità no-triv e di protesta accesa bisogna andare a Gorgoglione in via Roma al civico 96 dove si affaccia la sede del Comitato Civico Per Gorgoglione. La vetrina è coperta di manifesti di indignata denuncia contro le attività petrolifere della Total.
Alla ricerca di un futuro
Quando poche settimane fa il centro oli lassù in contrada all’Acqua di Maggio è stato completato spianando la sella della montagna e la Maire Tecnimont e le altre società di ingegneria e costruzioni hanno ritirato gran parte degli addetti, un migliaio, subito è calata la pressione sugli affittacamere, sull’andirivieni del tassista autonoleggio, sulle corriere che fanno i servizi di trasporto, sui ristoranti. Mille persone in più o in meno, da quelle parti, sono un’enormità.
Difatti i paesi della Basilicata si stanno spopolando. Forse le attività petrolifere possono contribuire a ripopolarli, o almeno a impedire lo svuotarsi.
Già il paese di Craco è una città fantasma, cintata e visitabile solamente accompagnati da guide.
Ora punto sul centro oli Tempa Rossa in cima alla montagna un compasso immaginario e disegno un cerchio virtuale e demografico del raggio di 20 chilometri.
Negli anni 50-60
• Stigliano aveva 9.900 abitanti, ora sono dimezzati a 4.400.
• Armento da 2mila a 600 abitanti, cioè -70%.
• Montemurro da 2.900 a 1.200, ha perso il 58%.
• Pietrapertosa da 2.300 a 990., cioè il -57% della popolazione
• Guardia Perticara da 1.600 a 540, il -62%.
• Laurenzana da 4.700 a 1.700, ovvero ha perso il 64% degli abitanti.
E i paesi “petroliferi”?
Dagli anni 50-60 a oggi
• Gorgoglione è sceso da 1.800 a 1.000, pari al -44%.
• Corleto Perticara da 5.200 a 2.529, ha perso il 52% degli abitanti.
E il paese più petrolifero della Basilicata, quella Viggiano in val d’Agri dove è attiva l’Eni, gli abitanti sono scesi da 4mila a 3.400 abitanti, ovvero il -15%.
Questa attività petrolifera è un beneficio economico oppure no?
A parte il caso di Viggiano, dove l’attività petrolifera è molto intensa da decenni e ha sviluppato molte aziende dell’indotto, nelle zone di nuova attività petrolifera non si può notare una perdita di popolazione diversa rispetto al resto dei borghi lucani.
I disegnatori dell’erba
A Vaglio Basilicata (Potenza), sul prato di fronte alla statale Basentana e a Molino Ricciuti, anni fa i ragazzi per protesta contro l’estrazione di greggio a Tempa Rossa tosarono l’erba per ottenere — come altrove nei cerchi del grano — un disegno che si vedesse dal cielo. Era il marchio della Total.
Dipende dalla versione disponibile, ma quel marchio compare ancora nelle immagini di Google Maps. Lo si vede anche da Google Earth.
Sulla mappa satellitare di Ios Apple c’è un altro marchio, appare la scritta «Luogo sicuro».
Sulla mappa satellite di Via Michelin e di Tuttocittà non ci sono i cerchi nel grano ma solamente prativo incolto.
Il disegno della Total — e gli altri simboli che si sostituiscono a ogni ricrescita primaverile del prato come la scritta No Tav e come anni fa il cane a sei zampe dell’Eni — viene inciso da un gruppo di giovani di Vaglio, che quando devono rinnovare i loro cerchi di protesta campeggiano sul prato lavorando alla tosatura dell’erba notte e giorno.
Allora sono andato a Vaglio Basilicata a vedere di persona se il cerchio nella grana contro la Total esiste ancora. No, questa primavera i ragazzi no-oil non hanno tosato l’erba; dalla statale Basentana né dall’Appia che sale a mezzacosta nulla traspare dal prato della contestazione. Ho scattato un paio di fotografie al prativo ormai senza simboli.
Ma sul computer rimane fissato il simbolo della protesta contro la Total, e rimarrà visibile dal cielo virtuale finché Google non aggiornerà la rilevazione del satellite.
Lapidi da capire
I cimiteri sono un libro in cui le lapidi sono pagine su cui leggere la società che è vissuta in un luogo, le persone, gli amori e i dolori, i mariti devoti e le vedove inconsolabili, il transito delle guerre e le ribellioni furiose che hanno agitato il misterioso Triangolo della Basilicata fra Colobraro, Gorgoglione e Craco.
Nel cimitero di Corleto Perticara dominato dalla vista del centro oli Tempa Rossa per esempio Carlo Toce, Antonio Vicino e Rocco Gerardi riposano all’ombra di un fascio littorio di bronzo.
Ho cercato nel cimitero di Corleto Perticara anche la tomba dell’ufficiale Icilio Pelizza, un 29enne ardimentoso di Parma che nel novembre 1861 fu ucciso nella battaglia di Acinello tra i soldati del Regio Esercito e i briganti borbonici comandati da Carmine Crocco e Ninco Nanco. Crocco ne riconobbe l’eroismo.
La battaglia tra briganti lucani e regio esercito si combatté laggiù sul greto del fiume.
Non ho trovato la tomba di Icilio Pelizza, forse le sue ossa sono nell’ossario comune in mezzo al cimitero. Però ho trovato un’altra lapide.
Ribelli contro lo Stato
Nel cimitero di Corleto Perticara c’è una pagina di pietra incisa difficile da leggere, di cui bisogna conoscere la sintassi particolare.
La lapide dice semplicemente in un serto d’olivo e di rovere:
11 LUGLIO 1920
PAX
VICINO DONATA MARIA
CUCURACHI LUIGI
SALVO MATTEO
Non è scritto nient’altro.
Decifrato il linguaggio oscuro di tre nomi e di una data di cent’anni fa, la pagina racconta una storia terribile della morte di tre persone per la rabbia collettiva e la violenza addirittura sadica della gente di Corleto Perticara contro l’arroganza del potere, come era avvenuto anche nel caso del brigantaggio di metà Ottocento.
Ne racconta la vicenda in chiave sociologica, antropologica e storica lo studioso Enzo Vinicio Alliegro nel saggio «Il grano, la falce, la rivoluzione». L’11 luglio 1920 accadde la rivolta contro lo Stato.
Il sottotententino Luigi Cucurachi, pugliese, si era arruolato nel Regio Esercito perché come segretario comunale gli toccava occuparsi di una cosa che gli ripugnava, cioè non voleva più fare le odiate requisizioni di derrate alimentari per l’ammasso e il tesseramento degli alimenti razionati. La guerra era appena finita e gli italiani mangiavano con la tessera annonaria. Passo al presente storico.
Cucurachi — indignato dalle requisizioni cui era stato costretto da segretario comunale — si arruola e dove viene mandato?
A fare le requisizioni di derrate alimentari per l’ammasso e il tesseramento. E viene spedito a Corleto Perticara.
Cioè dove nel 1989 si scoprirà il giacimento.
Prende in affitto una palazzina nel rione Ghersi, cioè lungo corso Lacava dopo la Fontana. I corletesi si chiedono chi sia l’ufficiale e che cosa voglia.
Quando Cucurachi comincia a mandare di casa in casa, di masseria in masseria, le guardie campestri, i vigili urbani e i carabinieri armati a requisire il grano, allora i corletesi capiscono. La mattina dell’11 luglio 1920 poco dopo le 9 si riuniscono ribollendo davanti alla Fontana. In massa circondano la casa dell’ammasso dalle cui finestre si vede la montagna del petrolio.
Il sottotenente Cucurachi si asserraglia dentro con una guardia campestre. Un carabiniere inchiodato all’uscio con il moschetto. L’altro sul poggiolo del primo piano. Accorre trafelato dalla locale stazione di piazza Plebiscito il maresciallo Matteo Salvo, messinese, sposato, padre di due bambine piccole. Va ad aiutare i due reali carabinieri e il sottotentente asserragliati. Le campane suonano a distesa chiamando i braccianti a raccolta per difendere i beni del popolo, il sindaco (un sarto timidissimo) si nasconde tremante in casa di un parente.
L’ex sindaco, tal avvocato Bonelli, arringa la folla contro l’ingiustizia dello Stato e accende i corletesi alla violenza contro lo Stato che minaccia il popolo.
Il grano è la grana, è la sopravvivenza; è la moneta di scambio e la dote dei matrimoni; il grano è il pagamento dei debiti.
Lo Stato ci porta via tutto ciò che abbiamo.
Volano i sassi urlati contro la casa, alle pietrate le finestre esplodono in lame di vetro tagliente, la gente infuriata spinge contro la porta, uno dei due carabinieri perde il controllo e spara, uccide una bambina di 5 anni, orfana di padre, Donata Maria Vicino.
La folla feroce
La folla inferocita depone il corpicino davanti alla pretura e reclama giustizia terrena, poi depone il corpicino di Donata sul sagrato della chiesa madre e reclama giustizia divina, e prendono taniche di petrolio e cominciano a incendiare la porta della casa dell’ammasso del grano, e vogliono dare fuoco a tutti quelli dentro.
I mandanti, le divise, lo Stato, la legge ingiusta, le istituzioni, la requisizione, e qui la piccola Donata Maria il suo corpicino morto.
Alle fiamme e al fumo i due carabinieri, il tenente Cucurachi e il maresciallo Salvo escono dalla porta dietro e corrono a perdifiato fuori dal paese, una donna li vede, eccoli prendiamoli, il maresciallo Salvo viene raggiunto a Sarappo, preso a bastonare e sassate, cade a terra ferito, la folla gli è addosso urla e fracassa gli ossi massacra uccide, Cucurachi vede il maresciallo ferito ucciso torna indietro per difenderlo urla la folla inferocita è addosso al tenente randellate gli occhi schizzano fuori la testa spaccata cervello spappolato, Cucurachi viene ucciso dallo scemo di Corleto, il pazzo divino, l’incoscienza della divinità.
E uno stacca due perastri acerbi da un albero e li ficca nelle orbite vuote della testa senza occhi che poco fa era Luigi Cucurachi.
Poi il Comune fa incidere una lapide di pietra, «11 luglio 1920, PAX, Vicino Donata Maria, Cucurachi Luigi, Salvo Matteo» e nient’altro, come con la vergogna dell’obbligo di ricordare.
Ripeto: come con la vergogna dell’obbligo di ricordare
Torno al 2018 e all’uso del tempo passato remoto. Nei decenni la lapide fu staccata, spaccata in tre pezzi e buttata in un ammasso di lapidi fuori dal cimitero, ma il custode del cimitero era uomo di garbo e raccolse la lapide e la fissò alla parete ai piedi di una cappella con un po’ di cemento e 12 ribattini di ferro, avvicinando i lembi della cicatrice della pietra spaccata.
Oggi, nel 2018, lassù oltre i cipressi del cimitero sul dosso della montagna luccicano gli acciai ancora nuovi del centro oli della Total.
Il paese delle donne felici
Il paese d’Utopia, e come tutte le utopie finisce in rovina.
In una Basilicata infestata da briganti affamati e crudeli, popolata da quella povertà assoluta che traspare dai dagherrotipi e dalle relazioni degli etnografi alla ricerca di società primitive, Campomaggiore oltre la montagna petrolifera di Montepiano e Accettura e Pietrapertosa era il paese delle donne felici e degli uomini sereni. Non c’era fame né povertà e ogni casa aveva un orto nel quale a maggio fiorivano le rose.
Questo accadeva nel 1741 quando il barone Teodoro Rendina — laureato all’Università di Pisa, e a quei tempi la laurea era una rarità mica come al tempo d’oggi che la regalano — decise di trasformare il suo feudo di Campomaggiore nella città della speranza.
Affidò il progetto a un architetto suo compagno di studi a Pisa, chiamò tutti i poveri e i diseredati a Campomaggiore, in alta montagna, fece abbattere le capanne del villaggio e diede a ciascuno dei nuovi cittadini un quadrato di 5 per 5 in cui costruire la casa, diede un campo da coltivare e diede a ciascuna famiglia un orticello per le rose.
In quei paesi dove le case si arrampicano in salita, le persone vivevano come bestie, le vie erano gradini per muli da basto e dove i campi erano sassaie di calcare, Campomaggiore offriva rivolto verso il sole un terreno pianeggiante e una terra dolce da zappare.
Ma sulla montagna di Campomaggiore la terra era piana e morbida perché spazzata dall’acqua di una frana antica.
Nel 1885, quando in febbraio la terra cominciò a slittare, a piegare di lato i muri, a creare crepe nei muri da cui cadevano sassi e calcinacci, a sbriciolare i comignoli, a dissestare le travi del tetto, allora gli abitanti di Campomaggiore riuniti in consiglio comunale decisero di trasferire il paese sull’altro versante del monte, più solido.
Oggi di Utopia rimangono le rovine con le rose.
Rose e rovine è ciò che resta anche di mille altre utopie.
(Per scrivere questo reportage nella zona petrolifera sono stati percorsi in Basilicata 25mila passi a piedi e 551 chilometri in automobile con un consumo di 45 litri di gasolio).
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